Un blog di parola * Dove la racconto (quasi) sempre vera
Speed Journal
  • Una bicicletta liberaria

    Ivani Illich odiava le tecnologie. Tutte, dal computer fino alla macchina a vapore. Più che odiarle forse le temeva; temeva la dipendenza dagli esperti che le controllano e dalle fonti di energia che le alimentano. Per questo aveva un’opinione tutto sommato buona della bicicletta.

    Ho imparato tardi ad andare in bicicletta. La mia migliore amica, che era di ben quattro mesi più giovane di me, mi prendeva in giro quando, intorno ai sette o otto anni, correva su e giù per il vialetto con la sua bicicletta nuova fiammante, e io dietro, in sella alla sua vecchia biciclettina con ancora le rotelle di sicurezza.

    A posteriori, mi rendo conto di come sia la mia amica che Ivan Illich avessero ragione. La bicicletta è uno straordinario veicolo di libertà. Da un lato ti lega all’ambiente, ti espone al rischio e alla presenza dell’inevitabile ed enigmatico altro, che sia umano, non umano o atmosferico. Dall’altro lato, è la maniera più immediata di vivere una socialità sufficientemente ampia e variegata da avere bisogno di diversi spazi in cui svilupparsi, ma abbastanza intima da consentire uno spostamento quotidiano e del tutto indipendente. Allargare le sfere sociali quel tanto che basta a potersi ancora sorprendere; comprimere le distanze, ma non troppo da perdere la misura e il rispetto per lo spazio.

    Negli ultimi giorni ho attraversato almeno dodici spazi fisici e sociali completamente diversi tra loro, contaminati è vero, ma pur sempre disomogenei. Per intenderci, la misura di questa disomogeneità è la difficoltà a riconoscere in me stesso dentro uno spazio la stessa persona che attraversa uno qualunque degli altri, e di conseguenza un accenno di imbarazzo a dover spiegare di volta in volta: ma tu cosa ci facevi là?

    In mezzo tra l’uno e l’altro spazio non c’è il vuoto pneumatico, ma strade tutte buche, viali alberati, ponti presidiati dall’esercito, locali, piazze, persone, parcheggi, attese al semaforo dove i ragazzi si tengono per mano. C’è mondo tra un luogo e l’altro, tanto che anche quel tra inizia a sembrare un luogo in sé, abitato. C’è uno spazio compresso ma ancora intellegibile, fatto di cose che mi riguardano. Non voglio attribuire il merito di tutto a una bicicletta di nome Oscar, ma anche ignorare il mezzo tecnologico sarebbe un errore. Ho la scelta, ho la possibilità, e insomma la libertà.

    Chi mi ama mi segua è vero solo in alcune condizioni. Come per esempio quando hai una bicicletta e una città densa in cui muoverti, e il privilegio, ad oggi utopico, di poter disporre come vuoi del tuo tempo.

Sono Stefano Zuliani [lui/ləi], ho 27 anni e vivo a Torino.

Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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