L’utopia rimanda a un concetto complesso e molto ricco, che partecipa delle caratteristiche più generali della fiction speculativa, ma ha anche alcuni elementi suoi peculiari. Essa rimane un genere letterario minoritario, anche nel nutrito panorama della science-fiction contemporanea, ciononostante continua a essere scritta e praticata.
In questo articolo vorrei mettere a fuoco alcuni punti salienti del racconto di utopia. Nel farlo, vorrei concentrare l’attenzione sulla teoria filosofica e politica, con alcune delle visioni che ritengo essere più pertinenti e utili per sviluppare il genere dell’utopia partendo da problemi ed elaborazioni realmente contemporanee.
In questo articolo:
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Com’è noto, la parola utopia deriva da greco “ou-topos“, che significa “non-luogo” o “nessun luogo”, e fin dal principio circoscrive visioni che si caratterizzano per l’essere tanto ideali, desiderabili e immaginifiche, quanto immaginarie e irraggiungibili. L’utopia si configura come un fine, nel doppio significato di scopo e di limite.[1]
Abbiamo già affrontato la questione della vocazione eminentemente politica del romanzo (e del racconto), legati a filo doppio alla nostra tensione a pensare e praticare il cambiamento sociale. Così l’utopia, prima ancora che nel testo letterario, si sviluppa proprio nell’elaborazione politica e filosofica.
Brevissima Storia dell’Utopia
Wolfgang Reihardt nel secondo capitolo della sua storia del Pensiero politico moderno, ricostruisce una tradizione di pensiero utopico che parte dalla seconda metà del XV secolo con «la fondazione di ideali» di Erasmo da Rotterdam, e una risposta che «trascende la realtà […] attraverso il progetto di un altro mondo possibile chiuso in sé», che è appunto Utopia di Thomas Moore.
«Le utopie,» scrive Reihardt, «sembrano essere in rapporto con i periodi di crisi». Così il terremoto della Riforma in Europa si accompagna a visioni utopiche ad esempio in Johann Eberlin von Güzburg, Michael Gaismair e in correnti millenariste di origine medievale, tra cui spicca il noto monaco cistercense Gioacchino da Fiore. Allo stesso modo, la crisi del XVII secolo accompagna il sorgere di visioni come la Civitas Solis, la Città del Sole del domenicano Tommaso Campanella, e dall’altra parte la Christianopolis del luterano tedesco Johann Valentin Andreae, per arrivare ai testi inglesi come l’Oceana di Harrington e la Nova Atlantis, opera rimasta incompiuta di Francis Bacon.
Prosegue Reihardt:
Dopo la Rivoluzione francese è possibile fare un altro passo, dato che la realizzazione delle utopie appare ora sempre più a portata di mano; da programma l’utopia diviene prognosi, poiché la fiducia nella razionalità scientifica culmina ora in una fiducia quasi illimitata nella possibilità di costruire il mondo da parte degli uomini.
È qui, nel territorio dell’utopia come prognosi, che finalmente incontriamo le visioni socialiste utopiche, il comunismo di Karl Marx e gli altri socialismi.
Il testo di Reihardt è particolarmente interessante, in questo senso, perché storicizza le utopie con cui abbiamo più familiarità, come appunto quelle marxiste, inserendole a un certo punto dello sviluppo delle idee di utopia. Ogni periodo, infatti, partecipa di una cultura, di valori e di problemi suoi propri. La scienza è pilastro di molti di questi testi, e arriva in Marx (a differenza di altre correnti da cui Marx si distanzia) ad essere essenza del socialismo. Tuttavia appare chiaro ai nostri occhi contemporanei che la scienza moderna porta con sé un’epistemologia che è essa stessa una forma di utopia (quella “fiducia quasi illimitata” di cui parlava Reihardt).
L’Utopia oggi
Il quarto e per ora ultimo passo dovrebbe essere quello verso I’utopia negativa del nostro presente, che porta all’assurdo la fiducia nella virtù e nella scienza prospettando un mondo peggiore. Oggi il pensiero utopico non è più praticabile, non solo perché noi non possiamo più credere nella perfettibilità dell’uomo, ma anche perché la critica storica ci ha insegnato che le utopie utilizzano sempre sistemi chiusi – non a caso amano le isole – sistemi con i minori contatti possibili verso l’esterno e con una conseguente interdipendenza interna, in modo tale che è sufficiente un mutamento in un settore strategico, per esempio nei rapporti proprietari, per produrre miglioranti nell’intero sistema[2]. I sistemi utopici tuttavia sono fuori dalla storia non solo dal punto di vista dello spazio, ma anche del tempo a causa della frattura con il passato che essi operano all’inizio e della scomparsa del futuro che agisce al loro interno. Nell’utopia la storia tace; in paradiso non c’e alcun futuro. Noi però sappiamo che non è possibile alcuna migrazione collettiva dalla storia.
Proprio qui, nel quarto momento ipotizzato da Reihardt, ci collochiamo noi, con tutta la massa di utopia-negativa che produciamo e consumiamo ogni giorno, ma anche con una nuova spinta a praticare la visione utopica, che sembra farsi spazio nonostante tutto. I problemi che Reihardt mette in luce sono parte di quelli con cui dobbiamo confrontarci quando ci sediamo al tavolo decis3 a fare utopia.
Il tempo e la storia
È possibile che questa “quarta fase” dell’utopia debba lasciarsi indietro l’idea di una frattura con la storia. La frattura, che sia rivoluzionaria, ecologica o qualsiasi altra, può verificarsi e può essere fondamentale. Ma la costruzione di una società all’indomani della frattura resta un processo conflittuale, che fa i conti in primo luogo con un prima a cui si oppone; non cancella la storia e non è senza storia, al contrario sancisce una nuova lettura del passato, che estrae analiticamente ciò che può essere riappropriato (ad esempio Internet) e scarta ciò che non può (i social media). È così disegna anche una nuova direzione verso cui tendere, un nuovo futuro.
Un esempio comune, che non viene dalla letteratura propriamente detta ma dalla politica, è quello portato da Donna Haraway. Nello Chthulucene le creature vivono come sistemi socio-materiali e affettivi fatti di reciprocità e di tensione verso un fine comune che per Haraway è, in ultima analisi, quello di «vivere e morire bene». Ma ogni passo di questa visione pseudo-utopica è carico del senso del lutto, di ciò che si è già perso e che ancora si perderà nel conflitto con un passato che tuttavia è presente. In questo senso l’utopia contemporanea parte dalla pratica di costruire sulle macerie e con le macerie.
Materia, persone, conoscenze
Innanzitutto, i nostri mondi non possono più essere sistemi chiusi. L’iper-mondializzazione dell’ultimo secolo ha portato con sé una cultura materiale e immateriale dell’interdipendenza tra luoghi e contesti lontanissimi tra loro. Un esempio, tratto dalla narrativa Solarpunk, è l’incrollabile problema della disponibilità di metalli rari, attualmente estratti nel sud del mondo, per le tecnologie di produzione dell’energia rinnovabile, in primis quella solare.
Sono problemi complessi, che possono chiamare in causa idee di decrescita, di giustizia, di disciplinamento, e vengono approcciati in modi diversi da diverse persone e correnti. Si tratta di riflettere sulla materialità e sul problema dell’altrove, dei luoghi da cui provengono le cose e i luoghi in cui vanno gli “scarti”, di rendere evidenti i movimenti, i processi e le concezioni che vi sottostanno. Ad esempio, un metallo raro, per l’uso che ne facciamo, non è solo un oggetto ma una risorsa; la sua distribuzione porta con sé questioni di potere, cioè politiche. La domanda che ci poniamo nel campo della politica non è più: è possibile estrarre e spostare questo oggetto? – ma: a quali condizioni è giusto farlo?
Naturalmente nella narrativa non ci aspettiamo di trovare le risposte “migliori” a queste domande. È più che altro un lavoro di ricerca, una pratica in cui mettere a tema e mettere in scena possibilità. Vederle, viverle, esperirle in prima persona nello spazio lungo o breve del racconto, toccare con mano le contraddizioni e le complessità del giudizio. Anche perché, come abbiamo detto, l’utopia si colloca al confine tra romanzo e politica, e proprio come il romanzo e la politica, non può che essere un’opera aperta.
Tornado alla questione dei mondi e della materia di cui sono fatti, partiamo da un conflitto aperto con il presente. Il movimento di materia, nelle società in cui ci troviamo, è reso trasparente, dato per scontato. Solleva, nel migliore dei casi, domande sulla possibilità (è possibile stoccare scorie radioattive sulla Luna?). Nella nostra utopia serviranno più domande e più precise. Le società che costruiamo dovranno provare a ri-simbolizzare e significare la materia, costruire culture della differenza alle cose (come opposto significativo all’in-differenza capitalista nei confronti delle merci).
Ne La maledizione della noce moscata, Amitav Ghosh prova una strada per dare significato a qualcosa di piccolo e poco rilevante, la noce moscata appunto. Lo fa non traendola al di fuori della storia, come singolo oggetto astratto dall’alto valore economico, culinario, naturalistico ecc, ma al contrario ricacciandocela dentro. È nella storia che risiede la specificità, la differenza, il significato dell’oggetto. Gli strumenti per farci le domande precise sull’opportunità del suo movimento vengono dal confronto con le esperienze che ne abbiamo già avuto e dai significati che abbiamo già attribuito.
L’isola continua a esistere (come nel racconto che sto scrivendo), ma oggi la comunità non è più un’unità ma un’eterotopia. È quasi un topos dei racconti Solarpunk quello di trovare, dentro comunità relativamente piccole, persone con background migratori e attributi etnici e culturali i più disparati, che dai loro background individuali traggono le risorse da portare nella comunità per risolvere collettivamente i problemi. In questo senso mi pare che i sistemi sociali utopici vivano delle differenze, si nutrano degli altrove da cui provengono le cose, e soprattutto le persone e i saperi. Proprio come il capitalismo si nutre dell’altro-da-sé per dare avvio al processo di accumulazione, l’utopia non è pensabile se i suoi confini non sono in qualche misura permeabili.
Scrive Marc Augè[3]:
Il nostro ideale non dovrebbe perciò essere quello di un mondo senza frontiere, ma di un mondo in cui tutte le frontiere siano riconosciute, rispettate e attraversabili…
L’utopia non risiede nell’iper-mondializzazione né nell’isolamento, ma in una interdipendenza che si basa sulla negoziazione, sulla reciprocità, sul consenso, dove lo spostamento di cose, persone e saperi non configura più un sistema gerarchico fatto di centri e periferie, dotati di potere e risorse in una distribuzione strutturalmente iniqua. In questo senso, come sembra mettere in luce Fredric Jameson, l’utopia oggi si struttura più in termini anarchici che marxisti.
Immaginare l’Utopia
I pochi elementi a cui ho accennato sembrano delineare visioni già strutturate e perciò semplici sa seguire, quasi come se esistesse una ricetta per l’utopia. In realtà sono convintə che pensare e raccontare le utopie sia un’impresa difficile, che ci richiede un profondo lavoro sui noi stess3, sui nostri linguaggi e significati condivisi, e soprattutto un’operazione che, citando Latouche, definirei decolonizzare l’immaginario.
Decolonizzare da cosa? Penso che la risposta a questa domanda sia il vero lavoro politico che sta dietro la scrittura di utopie. Vorrei approfondire in futuro la questione di come si scrivono le utopie, e cioè di quali domande è utile farsi e quali scelte di priorità ci si trova inevitabilmente a fare. Per il momento mi limito ad alcune considerazioni sulla natura cognitiva del capitalismo.
Il problema di immaginare l’utopia non è di poco conto. Quando chiudi gli occhi e ti domandi: “qual è il modo migliore possibile in cui questa cosa potrebbe essere?“, in genere la risposta viene a fatica e si incaglia nella definizione di cosa è possibile. Il mondo migliore che possiamo immaginare è di solito quello in cui tutti hanno tutto, faticano il giusto e ottengono i loro risultati, c’è crescita economica, coesione sociale e la tecnologia è confortevole (e tutt’al più equa, con qualche forma di fully automated luxury communism).
Se però guardiamo ai valori collettivi che sottostanno a questa visione, ci rendiamo conto che questo è esattamente l’immaginario che il capitalismo progressista ha cercato di venderci negli ultimi cinquant’anni come desiderabile. L’estetica e le modalità di fruizione di questo mondo sono impresse nei nostri occhi grazie a narrazioni mediali, pubblicità, discorsi e politiche (policies) tutti radicati in un’ideologia dello sviluppo irreparabilmente contraddittoria, volta a distrarre l’attenzione dai costi umani e non umani della crescita, tra cui lo sfruttamento del lavoro povero, l’estrattivismo e le gerarchie di genere e razziali.[4] Neanche il Solarpunk ne è esente, e ha dato qualche volta adito a futurismi ed estetiche vuote estremamente commercializzabili.
La domanda da porsi quando si prova a immaginare l’utopia è perciò la domanda più difficile: cosa c’è di desiderabile fuori da questi immaginari?
Come ho detto, diversi contesti storici hanno prodotto diverse formulazioni della domanda e diverse risposte possibili. Dal funzionalismo cristiano di Thomas Moore al comunismo di Marx, dal primitivismo di John Zerzan al recupero di significati indigeni. Giungere a una di queste risposte è difficile, specie nel contesto in cui siamo immers3, con un immaginario valoriale ed estetico capitalista che non solo è ovunque intorno a noi, ma è dentro di noi. Ad ogni modo la domanda è qui, è stata posta, e aspetta di ricevere qualsiasi risposta l’oggi possa dare.
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Note
[1] «Se il limite è il fine di ciascuna cosa, lo scopo si definisce anche attraverso il limite.» Su questo argomento mi rifaccio a un”elaborazione di Simone Lanza nell’articolo Limite e scopo finale: note sulle persistenze di Aristotele nel Capitale di Marx, in Quaderni della Decrescita, Anno 1, n.3 (2024).
[2] In questo passo Reihardt dà una lettura colpevolmente superficiale delle utopie socialiste. Omette la ragione per cui un cambiamento nei rapporti di proprietà avrebbe effetti sull’intero sistema sociale, e cioè la stessa dinamica del materialismo storico. La mia opinione è che nel Solarpunk e nelle eco-utopie in generale, non dovremmo lasciare indietro il materialismo in favore di nuove astrazioni, ma recuperarlo, e semmai approfondirlo ed estenderlo nelle direzioni che i materialismi radicali, come ad esempio quello di Jane Bennet, sembrano suggerire.
[3] Il testo più noto di Marc Augè, da cui ho preso questa frase, si chiama Nonluoghi (ed. it. Eleuthera, 1992-2009) che, come dicevo all’inizio, può essere una delle traduzioni etimologiche della parola utopia. Mi sembra interessante suggerire che la stessa parola utopia potrebbe forse rivelarsi inadeguata per descrivere mondi in cui le esperienze sono super-situate. Contrariamente ai nonluoghi di Marc Augè, questi sembrano essere super-luoghi.
[4] Per un excursus dei modi in cui questa ideologia dello sviluppo prende forma, consiglio di sfogliare il testo Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, a cura di A. Kothari, A. Salleh, A. Escobar, F. Demaria, A. Acosta (ed. it. Orthotes 2021).
Immagine di copertina: Utopia City 2080 di Damian Krzywonos su Deviantart, licenza CC 3.0