Lə libertariə si muove con circospezione in un paesaggio di non detti, rigidità istituzionali, e scarsa efficacia organizzativa. Nel mezzo dell’assemblea alza timidamente la mano per dire: “forse sarebbe utile chiarire il modo in cui prendiamo le decisioni…” Parla sempre di ciò che sarebbe utile, ma in fondo vorrebbe anche dire “sarebbe giusto”.
Si è presentatə fin dall’inizio come unə libertariə, perciò nessun3 dà troppo peso alla bizzarria delle due proposte. A volte si sente un po’ solə a essere l’unicə anarchicə nella stanza. Ma sa di camminare, per così dire, sulle spalle dei giganti. Tace sempre la sua ammirazione per i vari Kropotkin e Malatesta, eppure loro sono là, solide solide radici che affondano nel tempo, fratelli e sorelle di utopia, spiriti che gli sussurrano all’orecchio modeste proposte che ləi con timidezza porterà in questa assemblea perché vengano discusse e, prima o poi, valutate per davvero.
Non sta a ləi decidere, è chiaro. Può parlare di quello che crede, di come si sente, di cosa pensa sia più giusto e più efficace. Ma la decisione spetta a tutt3, a ognuna delle persone sedute a cerchio insieme a ləi ognuna con le proprie lotte particolari, ogni lotta per sé e tutte insieme.
La postura dellə libertariə nelle lotte altrui si chiama “social insertion” (non so tradurla in italiano). È uno spunto preziosissimo che ho trovato nell’essay Queer Social Anarchism di Elisha Moon Williams.