Questo racconto, in prima versione, è stato scritto nel febbraio 2016 per un concorso indetto da Jona Editore a tema “Memorie del sottosuolo”, e ha ricevuto una menzione speciale. Questa versione contiene diverse correzioni e una parziale riscrittura.
UNO
“Là, nel suo lurido e puzzolente sottosuolo, il nostro topo offeso maltrattato e deriso si sprofonda immediatamente in una fredda, velenosa e, sopratutto, eterna malignità.”
Anselme richiues il libro prima della fine del paragrafo. Lo posò sul tavolo rimandando la lettura a un momento migliore, come accadeva spesso.
Al rumore del bar, delle macchine da caffè, della gente che ciarlava a voce alta e delle maledette valigie a rotelle, si aggiungeva lo stridore del campanello dei treni in partenza, interrotto solo dal boato delle motrici in arrivo e dallo stridore dei freni al termine della corsa. Una voce metallica bofonchiava qualcosa dall’interfono, ma non si capiva un accidente. Anselme un gran mal di testa: non riusciva a leggere ed era stufo di aspettare.
«Cosa posso servirle?» domandò un cameriere a voce alta. Già tre volte gli aveva fatto segno di aspettare.
«Un cappuccino di soia,» rispose infine, con lo stesso tono di voce quasi urlato. Il cameriere annuì con una faccia scura da meridionale. «E un bicchiere d’acqua frizzante.»
Di fronte, una parete a specchio restituiva tutto l’ambiente ampio e caotico, intriso di una tinta giallina. Il riflesso di Anselme lo guardava con insistenza, lo metteva un po’ in soggezione.
Fu servito; mentre pagava lo schermo dell’iPhone si illuminò. «È ancora lì?»
«Ancora per poco,» digitò, esitò e poi premette invio.
Quello che gli toccava incontrare era uno studente tutto ego e pipa – troppo giovane, a dire il vero, per fumare la pipa. Uno scorbutico laureando in filosofia, che però era molto amato da quasi tutti il dipartimento, forse per la sua ossessione per Hegel o per i suoi modi da omosessuale e una cura maniacale della propria persona. Anselme aveva accettato di incontrarlo, sebbene gli facesse saltare i nervi, perché sospettava che gli servisse aiuto, e che soddisfazione sarebbe stata negargli una lettera di raccomandazione per un viaggio o un dottorato. Comunque Anselme non era un bastardo, glielo aveva già detto al telefono: «Non sono disponibile a mandare raccomandazioni», e lui lì per lì non aveva insistito.
Entrò nel bar di fretta. Indossava dei pantaloni blu scuro e un lungo cappotto a spina pesce color antracite. «Sono in ritardo» disse.
Con uno sforzo di diplomazia, Anselme lo invitò a sedere. «Ho già ordinato…»
Ma lui aveva già messo gli occhi sul libricino appoggiato sul tavolo. «L’ho letto sa? Dostoevskij è un genio!»
Anselme fece un cenno d’assenso. Il ragazzo ordinò un whisky e si infilò la pipa tra i denti. Puzzava leggermente di fumo, come un bohémien del cazzo, fatto e finito. Per diversi attimi rimase zitto a guardarlo, i suoi occhi azzurri erano leggermente assenti. Poi disse: «Siamo tutti un po’ così,» e indicò il libro, «Anch’io sono… come dice? un uomo malato… mi sento perso in questo mondo, e non sono capace di fare altro che la filosofia…»
Ad Anselme scappò un sorriso. Lo vide riflesso nello specchio e si sentì ancor più angosciato.
«Anselme…» disse, quasi sibilando sotto i rumori della stazione. Non è che fosse più viscido di altri studenti, era la sua confidenza a sembrare insana. «So che lei mi disprezza,» aggiunse.
Di nuovo si impose di non rispondere. Era fin troppo chiaro: il ragazzo si sentiva una vittima, un incompreso, e si era convinto che, se avesse avuto la possibilità di scrivere, di fare la sua di filosofia, allora il mondo lo avrebbe apprezzato. O forse no, forse avrebbe continuato a disprezzarlo finché era in vita, ma un giorno si sarebbero tutti accorti di che genio era stato e si sarebbero pentiti di averlo lasciato andare così.
Anselme finì il cappuccino e vuotò il bicchiere d’acqua in un sorso. Dopodiché si alzò, infilò il cappotto e raccolse il libro. «Ho un treno da prendere,» disse; avrebbe aspettato lungo la banchina. Si era voltato e stava già facendo lo slalom tra i bagagli sul pavimento, quando si sentì chiamare di nuovo per nome, questa volta a voce alta.
Il ragazzo era rimasto seduto al tavolo, e sventolava quello che sembrava un foglio di carta. «Guardi che questo la riguarda da vicino,» disse, e forse parve parve un po’ intimidatorio. Anselme cedette e si avvicinò di qualche passo, abbastanza da riconoscere nel suo foglio il frontespizio di un articolo pubblicato su rivista. Un articolo che Anselme conosceva molto bene, quasi come se l’avesse scritto lui.
Tornaò al tavolo, ma non si sedette.
«Il professor Archer insegna storia della filosofia continentale all’università di Manitoba, in Canada. Non è che l’ha già incontrato da qualche parte?» disse il ragazzo, che adesso lo guardava con i suoi occhi azzurri vispi vispi e mordicchiava il becco della pipa. «Ce ne sono altri dieci di questi articoli. È proprio sistematico lei… chissà se è qualcosa che il rettore apprezzerà, nonostante tutto.»
Anselme sentì le tempie che pulsavano.
«Non avevi un treno da prendere?» chiese, guardandosi intorno. Ma lui invece si sedette di nuovo; lo specchio di fronte rimandava una maschera pallida e disgustata dove avrebbe dovuto esserci la sua faccia. Eppure, sia la maschera che il ragazzo non la smettevano di sorridere.
«Non voglio rubarle altro tempo,» disse il ragazzo, bevendo l’ultimo sorso di whiskey. «Solo, volevo invitarla a pensarci su». Si alzò, raccolse il cappotto e gli augurò buon viaggio mentre usciva dalla porta anteriore della stazione. Anselme lo vide attraversare la strada e salire su una Vespa verde. Non aveva neanche pagato il conto.
DUE
David infilò la chiave nella serratura e trovò che qualcuno aveva lasciato la porta aperta. Si accorse immediatamnte della giacca appesa allo schienale di una sedia: un chiodo.
«Che cazzo state facendo voi due?» gridò, attraversando a lunghi passi il corridoio fino alla camera da letto. Non appena aprì la porta fu investito da una densa nuvola di fumo.
«Tranquillo,» rispose la ragazza dall’interno, con una voce acuta e giuliva. «Il tuo uomo è uscito e mi ha detto di aspettarti qui». Era sdraiata prona sul letto matrimoniale con una canna tra pollice e indice e gli anfibi che lambivano il piumino. «Senti, non fare il sospettoso, se no è meglio che mi restituisci il favore e sparisco subito. Hai incontrato il vecchio?»
«Sì,» rispose David, «si sta cagando sotto.»
«Bene,» rispose lei senza entusiasmo, «ha fatto qualche domanda?»
David scosse la testa, e le strappò di mano canna e posacenere. «Ci è rimasto male che, di tutti gli stronzi che ha bocciato agli esami, alla fine a metterglielo nel culo sono stato proprio io.»
La ragazza scoppiò in una risata, contorcendosi sul materasso. «Di tutti gli stronzi,» ripetè. Allungò il braccio in attesa che la canna le fosse restituita, ma David, che nel frattempo si era seduto sulla seggiola di fronte alla scrivania sgombra, non aveva intenzione di tornargliela. Invece diede un tiro e la abbandonò in bilico sul posacenere. Prese il coltellino a serramanico e iniziò a grattare delicatamente i rimasugli di cenere dall’interno della pipa.
«Io comunque non capisco il senso di fare tutta questa fatica,» attaccò la ragazza. «Questo professore che dici mi pare prorpio un poveraccio… Se è come dici tu, e non dico che ti credo, ma diciamo se quello che dici fosse assolutamente vero, allora chi se ne importa di lui, no?»
«Sì beh, non è che tu ci capisca molto,» raccolse la canna dal posacenere e tirò un’altra boccata. «Cos’è che fai di giorno? La parrucchiera?»
«Hair stylist, e comunque non c’entra, conosco un sacco di gente.»
«I clienti della sera?»
«Bravo David, sei veramente bravo a disprezzare la gente. Peccato che poi quei nerd ti fanno comodo…» rotolò sulla schiena e, con le braccia piegate sotto la testa come se stesse prendendo il sole dal paralume, scrutò David che sedeva alla scrivania. «Senti, a me non me ne importa niente, anzi sono contenta, così adesso mi devi un favore e quando sarai un ricco professorone ti obbligherò a comprarmi una villa a Saint Moritz o qualche stronzata del genere. Ecco, ero venuta a dirti solo questo…»
«Quindi siamo a posto?» chiese David, accavallando le gambe, preparandosi al momento in cui finalmente se ne sarebbe andata.
«Sì. Voglio solo dirti, tesoro, che devi imparare a vivertela un po’ meglio. Rilassati Cristo santo! Se hai tutti quanti dalla tua e uno contro, vai a passare il tuo tempo con quelli a cui piaci…»
«Grazie per il consiglio,» disse lui, sbattendo delicatamente la pipa contro il piano della scrivania per fare uscire fino all’ultimo residuo di cenere. «Adesso puoi andare finalmente a farti fottere?»
«Prendi me,» continuava lei, «io lo so che non piaccio a un sacco di gente, questi moralisti che dicono: “oh Gesù salvaci perché questa ragazza la dà a destra e a sinistra, e si veste tutta di nero quindi sicuramente la dà anche al diavolo in persona”. Ma il punto è che, diavolo o non diavolo, la fica è mia e me la porto da chi la sa apprezzare, capisci?»
David si alzò con uno scatto. In pungo aveva il coltellino svizzero. Lei balzò indietro, e finì quasi giù dal letto.
David le stava sopra, in piedi sul materasso a gambe divaricate. «La differenza tra me e te, stupida drogata di merda, è che io un’ambizione nella vita ce l’ho.»
Poi si chinò e con il pollice le accarezzò lo zigomo. La sentì tremare. «Sono un uomo malato, forse. Ma tu che cosa sei?»