Il regista (o Invisibile)

Com’è salutare una persona che conosci da anni e capire che è la prima volta che ti vede in vita sua?

Nel 2015 facevo parte di un collettivo universitario LGBT. Ero una giovane ragazza bisessuale che portava avanti politiche più o meno liberali di normativizzazione e richiesta di diritti per le persone gay e lesbiche. Lo facevo con molta convinzione, tanto che l’anno successivo sarei stata una dei tre coordinatori ufficiali del gruppo. È stato più o meno il mio battesimo alla vita politica, all’associazionismo e anche all’elaborazione di tutto ciò che di queer e non conforme c’è anche oggi nella mia vita. Un inizio graduale.

Durante un’assemblea, uno dei membri di più lunga data del gruppo ci presentò l’idea di girare un documentario sulla rappresentazione degli omosessuali nel cinema popolare degli anni Settata italiano. Dal momento che era una persona di fiducia, e che non ci mancavano né le forze né le risorse, decidemmo di appoggiare e di finanziare parte del progetto, permettendogli di andare in giro per l’Italia a registrare il materiale di cui sarebbe stato composto il documentario. Per parte mia, feci una piccola donazione, e gli prestai anche uno dei miei computer al momento di fare il montaggio.

Vidi il film completo per la prima volta nel 2017 credo. Pensò che, pur rendendomi conto della portata del lavoro, fossi in qualche modo bloccato. La mia comprensione del discorso era molto limitata dalla mia scarsissima preparazione politica, e anche dal fatto che un film autoprodotto, nella mia concezione di allora, non era davvero un film. So che ebbe una discreta circolazione, e che il regista continuò a viaggiare per parecchio tempo dopo l’uscita per presentare il film in circoli e altri spazi LGBT in molte parti d’Italia.

Poi successero delle cose piuttosto oscure, e in un modo o nell’altro ci separammo. Lui si laureò, io mi spostai, nel collettivo iniziarono a entrare le prime persone trans e non binarie, e sotto traccia iniziava a correre quel pensiero che allora per me era solo un confuso e bizzarro futuro, ma che con una sola parola si sarebbe in seguito allargato in ogni campo come “queer”.

Dentro di me quell’esperienza è sempre rimasta un punto fondamentale, forse un punto di svolta, a determinare il contatto tra la ragazza di provincia che ero stata e quello che sarei diventato in seguito, qualunque cosa sia. Come contenitore di esperienze, sapevo che alcune avevano più valore di altre, ed è per questo che quando ho sentito dire «Un film con Lino Banfi» durante una discussione nel circolo, il mio pensiero è finito subito là, a quel vecchio compagno che chissà come era riuscito a intervistare Lino Banfi per il suo documentario autoprodotto sugli omosessuali nel cinema degli anni Settanta. Senza capire, avevo affondato le mani dell’intuito in quello che stava per succedere.

Quando arrivo al circolo, in ritardo di venti minuti, sono arrabbiato, nervoso, frustrato e mi sento, come da diversi giorni a questa parte, dolorosamente esposto al giudizio di chi, contrariamente a me, sembra in grado di produrre esperienze concrete dalle situazioni di crisi, e non solo articoli di blog.

Loro sono già fuori, ci sono i soliti compagni, e c’è anche lui, il regista. Entro quasi correndo, perché se non apro il bar la serata non parte, e anche un po’ per nascondermi dietro al bancone, che è un po’ lenzuolo un po’ trincea.

Per tutto il tempo della proiezione penso a quanto c’era da capire e allora non avevo gli strumenti per capire. Con due birre e una grande angoscia, penso a chi erano quelle persone così flebili e politicamente inconsistenti a cui volevo bene, e penso anche che qui, in quello che sto guardando, il germe del mondo a venire c’era eccome.

Poi alla fine il regista viene a chiedermi da bere, mi guarda e forse pensa qualcosa ma alla fine non dice niente e gli apro la birra. Nel dibattito si parla di quei tempi, di cosa ci ha reso possibile pensare di fare un film, dal silenzio abbiamo tirato fuori qualcosa, dalle molte domande su chi siamo e cosa stiamo facendo né è uscito questo. Sono passati sette o otto anni dalla prima volta che l’ho visto, e siamo ancora in cerchio a parlarne.

Scorre tra i titoli di coda il mio vecchio nome, e mi sembra tutto sommato giusto, come guardo parlando della carriera da attrice di Marcella Di Folco la si chiama ancora al maschile. Non è di una persona che stiamo parlando, ma di qualcosa di molto più preciso, di un’esperienza, di una rete di relazioni che si è trasformata in un prodotto su schermo. E poi si è dissolta, ma una volta che una cosa è entrata in un film ormai è eterna. Come il mio vecchio nome e le scene al maschile di Marcella Di Folco, e quella famiglia collettiva che ci eravamo creati, che era bella perché a modo suo era spontanea, non sapeva elaborare, ma sapeva fare progetti. È lì, dietro le mie spalle, c’è un film a testimoniarlo.

Il regista non lo sa, ma il suo passato è il mio passato. Con lo sguardo mi interroga ma sono trasparente. Sono il barista del circolo che lo guarda intensamente, che forse chissà vorrà tentare un approccio?

Ci scambiamo poche parole: posso chiederti una birra? – Lascia pure qui la bottiglia, – ma mi bastano per accorgermi che mi sento in confidenza con lui. Una confidenza strana, perché è ostinata, nonostante non ci siano ragioni di essere in confidenza, e sia anche un po’ inopportuno dimostrarla in questo momento, come se prendessi troppo poco sul serio il suo ruolo di ospite.

Sento nei suoi discorsi una riflessività che l’ha cambiato, che ne ha fatto una persona molto diversa da quella che veniva a ubriacarsi al Tdor e si trovava a disagio a parlare in pubblico, forse per via delle molte presentazioni che ha fatto in questi anni. Ma anche la sua postura, le sue tendenze, sono più pacate, accentanti. Ma che diritto ho di paragonarlo a sé stesso del passato? Quasi una violazione di privacy e un senso di colpa per ciò che non dovrei sapere e invece so, per i luoghi e i momenti in cui c’ero anch’io, ma lui non lo sa.  Perché se oltre alle mie intenzioni, anche il mio corpo è diventato invisibile, che risorse mi restano?

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono uno studente di Sociologia, un copywriter freelance e un attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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