Occupare tutto

Venerdì 7 marzo 2024

In città ci guardano, schive e mute, mentre ci sediamo con ostinazione nel centro delle piazze che sono diventate rondò a viabilità accelerata. Mentre volgiamo gli occhi dall’altra parte, e anche le orecchie, come gatte, per non ascoltare i discorsi sconci della vecchia classe operaia in esubero, che sta coi culi in esubero sulle panchine incise, a condividere persistenti accenti del sud.

L’aria è il traffico, gli autobus sono troppo grossi per questa piccola rotonda; alzi gli occhi e ti accorgi che ti guardano tutt3, di nascosto, dai dehor di plexiglas della condivisione a pagamento che restringono ulteriormente la piazza su due lati; vecchie signore e zarri dabbene della periferia, si incontra lo status di popolazioni incomprensibili.

Una donna si siede vicino, i ragazzini si danno a vicenda del morto di figa, Porta Palazzo, accento napoletano, un giovane al telefono in una lingua che non so. Le cabine del telefono qui ci sono, non è che manchino, però hanno il cartello che dice “questa postazione sarà dimessa”, che vuol dire sbrigati a chiamare chiunque sia che ti sta a cuore. Cambia il paesaggio sotto lo sguardo di nessuno.

Qualche giorno fa ho avuto una visione. Avevano dismesso le onde elettromagnetiche – quelle della comunicazione intendo. Il filo fisico era di nuovo nelle nostre vite, e senza non potevamo più fare nulla. Pensa che fregatura sarebbe, per chi si è girato tutta la città, forse tutto lo stato, per mettere i cartelli che dicono “questa postazione sarà dimessa”. Vecchio sogno punk tra le parole della gente, perché dopo dieci minuti che sono qui la piazza è piena di persone sedute con me.

Se stessi qui un’ora riempiremmo le panche, il gradino del marciapiede, straborderemmo in strada. Coi nostri corpi bloccheremmo il traffico; in un giorno ci prenderemmo la città, occuperemmo tutto.

Anche domani i nostri corpi saranno marea, invaderanno tutti insieme la strade bagnate, e non saranno qui per dieci minuti e nemmeno per un’ora. Verranno per restare, fino a quando non avremo imparato a riconoscerci a vicenda, a difenderci a vicenda, e ci saluteremo al ciglio dei viali che saranno solo nostri. Queste formazioni non hanno nome. Non si chiamano classe, né famiglia, non sono neanche società. Comunità è la parola che uso in mancanza d’altro. Serve a dire cosa succede quando ti siedi per un’ora in una piazza sconosciuta di periferia, e forse a qualcuno inizi a ispirare fiducia. Le donne, gli operai, un ragazzo che scrive. Mi ero seduta con l’intento di leggere Foucault, ma ho capito che leggere in pubblico non sta bene. Gli zarri, gli autobus, le cabine telefoniche. Il paesaggio che cambia, la piazza è un caleidoscopio.

Mi ero seduta per autolegittimarmi nell’attesa, perché sedersi nella piazza è un gesto politico. Oggi siamo in due, domani saremo marea, ma voglio promettere, sento che posso giurarlo, che un giorno di questi i nostri corpi saranno milioni, saranno liberi di sedersi e leggere Foucault. Un giorno di questi, giuro, occuperemo tutto.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono uno studente di Sociologia, un copywriter freelance e un attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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