Chi ha avuto a che fare da vicino, per dirne una, col processo di razzalizzazione delle persone “non bianche” nelle società occidentali sa benissimo di cosa parla Falcinelli quando dice che il colore non è una cosa in sé, ma una costruzione, il frutto di una relazione tra ciò che è guardato e chi lo guarda, questo occhio vivente e discernente, caricato di tutta la storia e la cultura che si porta sulle spalle.
E allora, in quest’epoca di armocromia dilagante, la domanda che mi premeva porre al famoso designer Riccardo Falcinelli è: questo colore in fin dei conti cos’è?
Le risposte che emergono dal suo libro Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo non possono prescindere da una storia dell’arte e della cultura, ma anche delle tecnologie fisiche, chimiche e sociali. Falcinelli si serve per questo del racconto (incredibilmente appassionante) di una quantità di opere e oggetti, di storie e situazioni.
Anche se sembra incredibile, all’inizio del Novecento, durante l’ondata di immigrazione europea negli Stati Uniti, le persone provenienti dall’Europa meridionale e orientale (greci, polacchi, ebrei e naturalmente italiani) erano considerati a tutti gli effetti “neri”, per quanto la loro pelle non fosse molto diversa da quella che è oggi.
E d’altro canto, non si creda che il bianco sia più semplice: è ben noto, seppure impreciso, che nelle lingue delle popolazioni della Groenlandia esistono decine parole per indicare il bianco, parole considerate dagli antropologi ben utili, considerando lo stretto rapporto dei groenlandesi con la neve (o sarebbe meglio dire le nevi?).
Se da un lato la linguistica, con l’ipotesi di Sapir-Whorf, ha tratto da questi fatti importanti insegnamenti sul linguaggio umano, dall’altro lato la scienza del Novecento ha avuto anche lei un grande interesse nei meccanismi della luce e del colore. Proprio attraverso lo studio della luce abbiamo scoperto che, a scale ben più piccole, alcuni fenomeni soffrono di un bizzarro effetto per cui non solo cambiano il loro comportamento, ma perfino la loro “essenza”, quando cerchiamo di misurarle.
La relazione tra chi guarda e ciò che è guardato è uno dei temi fondamentali per leggere il design. Il design, per Falcinelli, è ciò che si produce nell’incontro storico tra l’arte e la produzione industriale. In altre parole, è qualcosa di diverso dal modo in cui abbiamo vissuto il nostro rapporto col colore per la maggior parte della storia umana. A mediarlo, appunto, c’è il processo industriale, dal quale il design emerge innanzitutto come immagine e merce. Questo stupendo strumento non verbale di produzione di storie e significati, è dall’altra parte un attrezzo del marketing.
Usare le storie per vendere non è altro che questo: una sovrapposizione tra immagine e merce, tra l’oggetto industriale e la storia che promette di iniziare con il suo acquisto (quella complessa costruzione narrativa che è la brand identity), L’epopea del guerriero è davvero uno strumento efficace per vendere un trapano, ma l’obiettivo in fondo è proprio questo: vendere un trapano.
Falcinelli allora racconta una storia delle immagini e del loro uso che vuole andare al fondo di alcuni falsi miti, come quello sui colori primari (che non esistono), sul legame biologico tra il rosso e l’amore, sulle forme innate dell’estetica “maschile” e “femminile” (vale a dire, il design come ciò che differenzia il famoso trapano da un minipimer), l’oggetto quotidiano senza macchia e senza usura, la perfezione estetica.
Nel rapporto industriale tra noi e gli oggetti e i loro colori, capita quasi di dimenticarci che tutti questi significati li abbiamo costruiti per vendere un trapano, e che i significati che gli diamo, proprio come la razza per la pelle, hanno il potere di cambiare il modo in cui percepiamo i colori. Proprio come i canoni estetici, anche il colore cambia e ci cambia.