Nell’ultima pagina parlavo di un lavoro su un articolo che riguarda la socializzazione delle persone trans-binarie, non binarie e gender questioning nelle scuole superiori del Regno Unito. Durante l’esposizione di questo lavoro è (ri)emerso un punto problematico che si trova spesso nei discorsi portati avanti sia all’interno che all’esterno della comunità trans*: nel definire genere e identità di genere si è parlato di una forma innata, un verità interiore, che sarebbe appunto l’identità di genere.
Non intendo delegittimare l’esperienza di quelle persone trans* che vivono e si raccontano in questo modo. Ma allo stesso tempo, sono anche unə studente di sociologia, e trovo inaccettabile parlare di identità di genere innata e altre forme di essenzialismo di questo tipo, perlomeno per quello che riguarda la sessualità.
In sociologia sappiamo da molto tempo che tutte le forme di identità sono socialmente costruite (e la domanda resta: come?). Non c’è una “identità vera” che si nasconde al di sotto delle costruzioni sociali, ma stratificazioni di pratiche che acquistano significato solo attraverso la condivisione, cioè nelle relazioni.
Senz’altro esistono alcune forme storiche di teoria queer, come quelle che si rifanno innanzitutto a Freud e Marx, che ritengono che la società operi in maniera esclusivamente repressiva nei confronti di una forma di “vero io” e di “vero desiderio”. Tuttavia, dopo queste teorizzazioni c’è stato molto altro. Riprendo solo, banalizzandolo inevitabilmente, Michel Foucault, e l’idea che il potere non è solo una forma repressiva ma è innanzitutto una forma produttiva di azioni, di identità e di soggettività. Ogni soggettivazione è intra-sociale, e proprio per questo è in rapporto dialettico con le forme di potere specifiche del contesto in cui emerge.
Così le nostre identità di genere e le nostre identità trans* sono forme resistenti al binarismo di genere, ma possono esistere e rendersi riconoscibili in questi termini solo al suo interno. Il punto quindi non è se esistono o non esistono, ma perché esistono, come si strutturano e in risposta a che cosa. Per tornare sul piano politico, il potere c’è in ogni caso, ma questo non significa che le forme che assume siano giuste per noi. Se i modi in cui il contesto co-produce le nostre identità rispondono a gerarchie ingiuste e oppressive nei nostri confronti, allora vanno combattute, va interrotta la loro riproduzione, e cambiati i dispositivi di significazione (e sovra-significazione) che coinvolgono i nostri corpi e le nostre esperienze.
Credo che questo dovrebbe essere il centro delle politiche queer oggi: non riaffermare il nostro “vero io” ma riaffermare noi stess3 contingenti e la nostra legittimità a parlare per noi e agire sul mondo che ci circonda. Questo non solo prescinde da un sentimento innato, ma si dà con ancora più forza quando le nostre istanze nascono dalla stessa società che vorrebbe reprimerci.