Per parlare di giardini, prendo sempre in prestito questa frase di Michel Foucault:
Il giardino è la più piccola particella di mondo ed è anche la totalità del mondo. Il giardino rappresenta fin dalla più remota antichità una sorta di eterotopia felice e universalizzante.
I giardini digitali, come quello che stai esplorando, sono spazi ibridi tra il blogging, i social network, i taccuini e altro ancora.
Come funziona?
Gradualmente, proprio come gli esseri umani, che imparano, dimenticano, cambiano idea, imparano dell’altro e lo ricollegano a quello di prima. Quello a cui assisti nel dig-gard un è un processo di rilettura e revisione, modifica e ampliamento che non si ferma mai.
Alcune pagine sono state riviste nel corso del tempo, altre contengono solo un link o un abbozzo. Le ho immaginate come le fasi della ciclo di vita di una foresta:
🌱 Seme 🌳 Pianta 🌿 Germoglio 💮 Pollini
Okay ma perché?
Se mi leggi da un po’ sai che, sebbene siano parte del mio lavoro, sono fortemente criticə nei confronti dei social network e del modello economico che presuppongono (dal problema dei dati, a quello della libertà di espressione, dall’impoverimento estetico e dei contenuti, al lavoro non retribuito, scegli la tua ragione…). Anzi, proprio in quanto lavoratorə della comunicazione, sono convintə che, individualmente e come società, sarebbe l’ora di iniziare a farsi delle domande sulle nostre modalità di comunicazione. Più di tutto, è l’ansia costante e continua, il senso di inadeguatezza o di volersi “scollegare” ma non riuscirci, che dovrebbero farci venire il dubbio che qualcosa non sta funzionando.
Il digital gardening è un’esperienza completamente diversa. Contro quello che forse hai letto in giro, non è fatta per aumentare la produttività, per potenziare la creatività o praticare l’autocontrollo. Anzi, è proprio il contrario. È una pratica trasformativa, di cura verso noi stessɜ, uno spazio in cui ci permettiamo di eserciate una postura ai limiti dell’indicibile: quella di vagare nel mondo come flâneuse digitali (lo racconta così Harvesting the Net, il video-essay di REINCANTAMENTO sui giardini digitali).
Un digital garden è più complesso dei social: va “curato” non solo nel contenuto ma anche nella forma – ragione per cui, come dibattevamo ipoteticamente con Mark Fisher (quello di Realismo Capitalista), non è necessariamente la via migliore, e sicuramente non è la più accessibile per tuttɜ. Per fare un giardino serve trafficare, ma anche sperimentare, e mediare continuamente tra approcci creativi radicalmente diversi (credimi, se non li pratichi: il design, lo sviluppo, e perfino il “coding” possono essere attività molto creative!).
Che senso ha impegnarsi così tanto? Al centro, c’è l’idea che la scrittura, il design, lo sviluppo eccetera, siano fatte in libertà. Niente lavoro, niente performance, niente algoritmi, gamification e dopamina. Per questo, nel contesto in cui viviamo, la pratica del digital gardening fa un po’ saltare il tavolo.
All’inizio è perfino difficile prendersi davvero dello spazio, del tempo e della libertà. Ti fermi, qualche volta, e ti chiedi se è giusto farlo, se te lo meriti. Ci sono un sacco di scelte da fare, e così ti rendi conto di tante piccole scelte che non avevi preso in considerazione mentre andavi col pilota automatico big-tech. Grandi poteri, citando un saggio, che di solito implicherebbero anche grandi responsabilità – non fosse che nel digital gardening il confine tra pubblico e privato è poco chiaro e spesso lɜ digital gardeners ne approfittano per prendersi una rivincita e parlare di qualcosa di così profondo come loro stessɜ.