Chi sono questi strani individui che si aggirano per il web con le mani sporche di terriccio? Ho deciso di recuperare alcune vecchie annotazioni e metterle insieme per raccontare le mie sensazioni sullo sviluppo dei digital gardens dal 2020 a oggi.
In un articolo su giardino punk, abbiamo immaginato di far dire a Mark Fisher una cosa importante sul digital gardening: c’è un problema di accessibilità e di distribuzione delle conoscenze, che fa sì che questa pratica alternativa risulti inavvicinabile allɜ più. Tenendo a mente questo, ecco chi sono, secondo me, quellɜ che invece praticano e re-inventano il giardinaggio digitale.
Generazione 1 (2021)
Ficcanasando nel digital garden di Maxime Vaillancourt ho trovato un gruppo Telegram “for people actively using (sometimes building) solutions to tend to their mind garden“.
Posso confessarlo: finora non ero del tutto sicurə che qualcunə effettivamente stesse usando e sviluppando digital gardens. Non è una questione di numeri (un fenomeno è un fenomeno anche se lo fanno in pochi – tipo lo sapevi che la prima edizione del singolo God Save the Queen uscì in pochissime copie e adesso è uno dei dischi più ricercati di sempre? pare ce ne siano in giro nove).
Oltre al sopracitato Maxime Villancourt, sembra che nessuno abbia mai sentito il bisogno di sviluppare un template per Jekyll pensato propriamente per i giardini digitali, e questo mi ha fatto riflettere. A volte sembra quasi che Maggie Appleton si sia inventata tutto (dopo questo post ho sviluppato io un template Jekyll per digital gardens ispirato a quello di Maxime Villancourt, e ho scritto una guida in italiano su come usarlo).
A margine: è ironico che i tools che usiamo di più siano Jekyll, Gatsby e Hugo, o forse a me sembra così perché da quando ho cominciato a interessarmi allo sviluppo dei digital gardens non ho più avuto tempo di leggere libri…
Una cosa che tutti i digital gardens che ho visto hanno in comune è un certo minimalismo estetico la tendenza a portare l’attenzione più sul contenuto che sull’aspetto – che è bizzarro, se consideri che diversɜ giardinierɜ sono graficɜ, illustratorɜ e sviluppatorɜ. A questo si lega anche, nell’identikit del giardiniere digitale, un’immancabile presenza su GitHub e un certo interesse per l’open source. Insomma, lavorando nell’economia della conoscenza, sono liberali (ma non tuttɜ 😈) e progressistɜ; ascoltano podcast, usano Twitter (oggi forse Mastodon) e seguono l’hashtag “#webdeveloping”.
Come dico spesso, ci sono note che trattano praticamente di qualsiasi cosa. Ma in fondo, io credo che lɜ digital gardeners parlino di sé stessɜ. Hanno trovato un modo appetibile di essere “micro-influencer” nel web, licenziando i social network e le loro dinamiche di capitalismo della sorveglianza (in effetti, moltɜ gardeners sono anche attentɜ alle questioni di privacy). Quello che mi sembra di intuire dai loro giardini, è una postura assolutamente punk, messa al servizio di quel sentimento molto umani che riassumerei come: voleva essere popolare al liceo.
Gli italiani (2020)
Mentre scrollavo selvaggiamente, mi è capitato un pezzo di Riccardo Coluccini detto Boter su Motherboard di Vice. Sembra un primo tentativo italiano di divulgare la sottocultura dei digital gardens che, come Boter ha notato, è un intrico difficilmente spazzolabile di inclinazioni individuali e tendenze collettive, in parte fermamente controculturali, e in parte accomodanti e riformiste nei confronti del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” social-oriented.
Rimando tutto il contenuto dell’articolo per lasciare solo la domanda che, alla fine, mi sorge: come mai sono così pochi i giardini che parlano italiano?
Renewal (2024)
Riprendo il tema per provare a fare una fotografia dello stato dell’arte del digital gardening oggi che, mi sembra, la bolla si è un po’ sgonfiata. Una parte dell’hype si è riassorbito, e quello che è rimasto sono, a mio avviso, almeno due tendenze.
La prima legge il digital gardening come sinonimo di crescita personale e second-brain, da un più felice approccio ispirato alla mindfullness, che incrocia il tema della scrittura come strumento di self-help, a un più aggressivo elogio della produttività a ogni costo.
La seconda tendenza è contraria, ed è quella per cui la pratica del gardening e la visione del mondo che le sottostà hanno finito per diffondersi sempre di più in spazi radicali di gnoseo/hacking. A partire dalle comunità di Mastodon, spazi di produzione di contro-saperi e spazi politici radicali hanno fatto propria l’idea del gardening, complice anche una (finalmente) più orizzontale critica alle dinamiche di estrazione di valore peculiari ai social media. La rivista REINCANTAMENTO, per esempio, non solo ha fatto propria questa pratica, ma ha anche realizzato un video-essay molto bello sulla storia del digital gardening, che abbiamo ripubblicato (con traduzione in italiano) su giardino punk.
Questo per dire che forse l’oggetto garden non è destinato ad avere tutto lo spazio che sembrava poter avere nella cultura mainstream, ma è anche vero che sembra stare mettendo radici in comunità che, dal punto di vista valoriale e delle conoscenze materiali, erano pronte ad appropriarlo. Più che una specie in via d’estinzione, ci vedo come creature che vivono e prosperano nelle regioni oscure del web.
Comunque se conosci qualche digital garden che forse non ho incontrato, consigliamelə!