Il mito della risonanza

Da un nuovo progetto di Joan Westenberg arriva uno spunto sui contenuti e il modo in cui li abbiamo pensati finora, che (spoiler) potrebbe essere sbagliato.

La sfida – andare a prendere ciò che accomuna ogni essere umano come fa la grande letteratura, ma condensandolo nel flash di un reel – è stata vinta al prezzo dell’invenzione del cosiddetto “lavoro creativo” (come status) con conseguente estrazione, dell’ingegnerizzazione del processo, e dell’estensione del giudizio sul prodotto a cui niente può più sfuggire (né l’arte, né la comunicazione politica, né i rapporti interpersonali). Ma soprattutto, questa enfasi sul produrre contenuti che “ci parlino” sul piano emotivo, che siano importanti per noi e sul buono storytelling, ci ha portat3 – alla prova dei fatti – a produrre tonnellate di contenuti tutti uguali.

Anche se non condivido del tutto gli obiettivi di Joan Westenberg (come “la vera innovazione” e “farsi amare davvero” da qualcun3 per i propri contenuti), credo che tocchi un punto fondamentale:

The psychology of resonance is a trap. It’s a pop-psychology airport book luring us towards the safe, the familiar, the easily digestible. But real breakthroughs, true innovation, meaningful art – these things come from swimming against the current, not with it.

Fuck crafting content that resonates. Focus instead on creating work that challenges, that provokes, that dares to be different.

In questo momento sto sperimentando il valore politico e di crescita del porsi domande difficili. Ma in generale, trovo che questo sia un ottimo spunto per approcciarsi alla scrittura in modo radicalmente diverso.

Ti lascio qui il link.

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