La democratizzazione di Internet e l’esplosione degli User Generated Contents, ossia quel meccanismo per cui oggi anche mia nonna può mostrare al mondo le sue fotografie d’autore scattate con lo smartphone, è al centro di moltissimi dibattiti, dalle fake news all’hate speech, dalla crisi dell’industria culturale tradizionale a quella della democrazia rappresentativa. Non saprei entrare nel merito e dare un giudizio su queste questioni. E anche se fossi capace, credo che sarebbe un giudizio sterile. D’altronde sono qui a scrivere un blog, la mia opinione è evidente.
Quello in cui vorrei mettere il becco, invece, sono le conseguenze economiche. Il fatto di traslare la “creazione” di contenuti digitali dal campo del lavoro (almeno in parte) salariato a quello del tempo libero comporta, secondo me, una mispercezione di quello che questa attività effettivamente è. Non sono un economista, ma lavoro con Internet anch’io, e un paio di cose mi sembra di averle capite.
Lavoro e non lavoro
Quella del lavoro non retribuito è una vecchia questione, Karl Marx per intenderci. In pochissime parole: è proprio del modo di produzione capitalistico il fatto che esista una parte di lavoro che non è retribuita al lavoratore nel suo salario, ma serve a produrre plusvalore a beneficio del capitalista. È normale. È giusto? Non lo so, ma è un fatto. La considero una questione chiusa (se hai voglia di riaprirla ti consiglio di andare a leggere direttamente il Capitale, ma per sommi capi la trovi anche in un manuale di filosofia del liceo). Quindi forse il titolo di questa nota non dovrebbe essere “Lavoro digitale non retribuito”, ma “Lavoro digitale non riconosciuto“. È di questo che stiamo parlando.
Creazione di contenuti
Un’altra cosa di cui nessuno si sorprende è che l’attività creativa non sempre si traduca in un mestiere. Mi piacerebbe metterla a paragone per esempio con il mestiere del pittore.
Al di là del giudizio sulla qualità del’opera, posso pensare a montagne di ottimi pittori che, per scelta o meno, si sono mantenuti nella sfera della passione, dell’attività amatoriale, senza farne una vera e propria professione. Altri, invece, hanno trovato il modo di vivere (o perlomeno guadagnare qualcosa) con la loro arte. Lo stesso succede anche per i digital content creators. Non tutti i vecchi blogger sono diventati scrittori, è chiaro. Come ci sono i pittori con le cantine piene di tele ammucchiate a fare polvere, ci sono romanzieri coi cassetti che traboccano di cartacce, e creators con le note del telefono e il blog pieni di ottime idee.
Fin qui il senso della parola “creators” mi sembra che non sia cambiato più di tanto col grande tuffo nella Rete.
Produzione di contenuti
Il problema si presenta insieme ai social network. Quando queste idee vengono effettivamente distribuite, il gioco cambia. Mentre da pittore posso regalare i miei disegni, posso fare un ritratto a un amico ecc., e il tutto rientra nell’attività creativa di cui parlavo sopra, i social network cambiano la posta in gioco. Facebook è l’amico a cui regali tutti i tuoi album da disegno dicendo: “beh, mostrali un po’ in giro”, e che sistematicamente corre a venderli all’asta, tenendo per sé il ricavato. Il fatto che tu come “creator” non percepisca il tuo lavoro come un lavoro, una produzione in senso industriale e marxista, dà la possibilità alle piattaforme di appropriarsi del valore che produci senza darti niente in cambio (se non una forma di visibilità che è comunque vincolata alle sue regole e che potrebbe non tradursi mai in entrate vere e proprie). Praticamente quello del content “creator” è il lavoro più vantaggioso del mondo, perché dà il 100% di plusvalore per loro e per niente in salario per il lavoratore.
Per questo continuo a insistere sul fatto che la “creazione di contenuti” non è “creazione” nella logica della creazione artistica, ma è a tutti gli effetti “produzione” di contenuti, nella logica di un sistema di lavoro non salariato in cui qualcuno guadagna dal tuo lavoro. E quando parlo del guadagno delle piattaforme intendo prima di tutto la loro stessa esistenza, oltre ovviamente agli introiti pubblicitari. Tieni sempre a mente che il valore di Facebook – uno a caso – è il valore delle persone che lo usano: un social network vuoto e senza prospettiva d’uso, fosse anche il sito più complesso di sempre, varrebbe zero.
Con questo non sto dicendo che si sbagliato esibire le proprie creazioni, né che per farlo sia meglio entrare all’interno di sistemi che prevedono giudizi di valore più o meno arbitrari da parte di istituzioni riconosciute che fanno ovviamente i propri interessi (editori, galleristi, software house, talent scout, programmi televisivi, ma anche agenzie di recruiting se sei un influencer…). Quello che sto dicendo è che la scelta non si limita a questi due modelli. A un certo punto si è deciso che la Rete fosse libera, ed è ancora così, non dimentichiamocelo.