Alcuni commenti a caldo. Ripartire dal desiderio è un libro che usa gli strumenti della critica dei cultural/gender/queer studies con un fine (e un finale) esplicitamente marxista. Va da sé che non è un libro semplice. A complicare ancora di più le cose ci sono altri tre aspetti: uno di metodo e due di merito.
Primo: come già per il concerto di desiderio, l’autrice prede a pienissime mani dalla psicanalisi, a tratti sembra recuperare una certa tradizione freudo-marxista (anche se in ultima istanza dialoga molto con il queer antisociale). Il risultato è una certa oscurità nelle interpretazioni che mutuano e/o usano i concetti della psicanalisi.
Secondo: un’altra postura è quella di una apparente critica nei confronti di ogni posizione politica esistente, che rende di sicuro il testo più chiaro nel suo indirizzo, non necessariamente più godibile nel discorso.
Terzo, che va di pari passo col secondo: manca quasi del tutto una proposta politica positiva – ragione per cui userò questo spazio per cercare di estrapolare alcuni elementi inutili a proporre pratiche spendibili nell’organizzazione politica (non necessariamente fedeli a quello che l’autrice si dà come obbiettivo, e cioè una forma di unita delle lotte in una lotta di classe generale che è sicuramente un obiettivo ma a mio modestissimo parere non può oggi essere il primo obiettivo).
Riassumo vergognosamente: un presupposto è la “femminilizzazione della società” operata dal capitalismo contemporaneo con l’obbiettivo di estendere le qualità tradizionalmente femminili di docilità e autodisciplina all’intera classe lavoratrice. Una politica che si opponga all’oppressione allora non può basarsi essa stessa sull’autodisciplina, la moralità, un’idea di ciò-che-è-giusto-fare, ma deve ripartire da quel meccanismo un po’ oscuro e inquietante che è il desiderio, «precisamente quella cosa che lega la nostra soggettività al mondo fuori, da cui è condizionato (ed è per questo che allo stesso tempo può ribaltarne le sorti)».
Il primo problema allora è che spesso la politica diventa morale, autocolpevolizzante per i nostri privilegi, o autoassolvente per i nostri sacrifici. Diventa fondamentale elaborare un modo di fare politica che non ci rimandi al senso del dovere – già appannaggio del capitalismo che ci lascia senza forze – ma sul desiderio intrinseco in ciò che facciamo. Aiutare lɜ altrɜ? Sì, forse, ma non perché siamo brave persone. Aiutare lɜ altrɜ quando c’è anche qualcosa per noi, un desiderio che ci spinge verso lɜ altrɜ.
Mi ricorda un discorso che mi faceva un amico anarchico individualista. A lui, cercava di spiegarmi, non interessa aiutare la generalità delle persone, con gli esseri umani non sente alcun legame, lɜ altrɜ in astratto per lui non significano niente. Sono invece quellɜ a cui è legato, con cui sente di avere una connessione, poche persone per cui è disposto a mettersi profondamente in gioco. Ma per egoismo, se così vogliamo dire, e certamente non per carità.
Si dà la situazione in cui il cambiamento strutturale (la Rivoluzione, la chiama qualcuno) ci è necessaria per aiutare noi stessɜ e le persone a cui siamo legatɜ a vivere meglio. È una prospettiva diversa, sicuramente parziale, sicuramente rischiosa in alcune sue declinazioni (l’ho detto molte volte e spesso lo ripeto: gli strumenti sono senz’altro diversi, gli obiettivi pure, ma penso che l’associazione tutta giuridica tra criminalità organizzata e comunità anarchiche non sia poi cosi peregrina come sembra – e lo dico da anachicə, che ha tutto l’interesse a fare divergere nettamente le due cose).
In particolare mi sembra che una politica che richiami all’etica e alla responsabilità si dia come veramente necessaria in un contesto in cui abbiamo perso perfino la consapevolezza che con le nostre azioni agiamo sul (e nel) mondo, e in cui il nostro desiderio è in primis nel (e del) sistema economico.
Quindi ecco, tanta complessità, e come dicevo al testo di Cuter manca un po’ quella pars constuens che è il motore e il rovello dei miei pensieri politici in questo momento della vita. Tuttavia immagino che ripartire dal desiderio sia anche qualcosa che dobbiamo imparare concretamente a fare, insieme e ognunə per sé, anche per capire come farlo. Come desideriamo, tanto per cominciare, e cosa desideriamo.