Sono stato particolarmente felice di scoprire che esiste un germoglio di movimento solarpunk anche in Italia. All’inizio della mia esperienza c’era un articolo su Oggi Scienza di Michele Bellone, articolo che girava attorno alla pubblicazione di una vera e propria antologia italiana del genere. Più o meno in quel periodo ho scoperto solarpunk.net e quel genere di energia propositiva che avrei ritrovato, ad esempio, tra le stanze dei Visionary Days. Alla fine del 2020, appare Solarpunk Italia, che sebbene si concentri più sull’aspetto eco-politico che su quello socio-politico, mi ha offerto alcuni punti di vista nuovi (in particolare ti consiglio questo post di Silvia Treves, una dei fondatori, che discute criticamente il senso del solarpunk e ne lascia trasparire tutta la complessità.) Mi viene da pensare che la situazione della pandemia abbia in qualche modo rilanciato la riflessione ecopunk e le sue manifestazioni artistiche, come la climate fiction. Tutto è in progress.
Se vuoi capire il solarpunk, oltre a leggere i vari manifesti, ti consiglio l’antologia Sunvault. Alla base della produzione solarpunk c’è la scelta di sovvertire l’immaginario cyberpunk attraverso un sovvertimento degli schemi narrativi. Lasciandosi alle spalle tutte le forme di distopia, i racconti solarpunk provano a immaginare una narrazione non necessariamente utopica, ma orientata verso il futuro dell’umanità, e in cui il conflitto centrale sia a vantaggio di temi come la giustizia sociale e l’ecologia.
Allo stesso tempo, come fenomeno degli anni Dieci del Duemila, il solarpunk può sfruttare un immaginario tecnologico molto più avanzato del cyberpunk classico (può succedere di trovare dettagli estremamente precisi a proposito delle tecniche e delle tecnologie che appaiono nei racconti di Sunvault). Personalmente, ci vedo una sorta di sintesi tra l’impegno (eco-)politico di nutrite fette dell’emergente GenZ (gli stessi che, per dirne una, partecipavano ai Fridays for Future nelle piazze italiane) e una mentalità queer che è insieme nuova, figlia della bolla comunicativa, e ripresa dalla tradizione dell’associazionismo di stampo critico-politico (mi viene in mente il movimento LGBT+, i gruppi radicali e antispecisti e l’autocoscienza femminista). A questa responsabilità ecopolitica si somma una nuova insofferenza rispetto al regime del lavoro necrocapitalisco in cui siamo tutti immersi (e di cui puoi leggere tra le pagine del mio amato Mark Fisher). Il mezzo per il cambiamento sembra essere riassunto in un’altra delle idee che mi stanno più a cuore, ossia quella della cultura trasversale, in un perpetuo scambio tra immaginario letterario e artistico, architettura, politica e scienza.
In altre parole, unendo le forze, sia critiche che creative, e rifiutando schemi distopici precostituiti, il solarpunk potrebbe anche avere la forza di immaginare, mostrare e (perché no, nelle giuste condizioni economiche,) perfino realizzare un futuro migliore.
Come ha scritto Silvia Treves nel già citato post:
Fino a che ci sarà spazio per dire “questo mondo non mi piace, ne voglio uno diverso” io continuerò a farlo.