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Storie di un Corpo

🗓️ 16/03/2025

Note sulle Storie di un Corpo

Quando Natalie Goldberg, nel suo famoso Scrivere zen, ci invita a “Diventare animali”, di certo non intende quello che intendiamo noi sul monismo ontologico e qualche forma radicale di antispecismo. Ma su una cosa siamo d’accordo: è estremamente difficile essere presenti a sé stessɜ quando si pensa di scrivere (su questo argomento ho fatto una pratica laboratoriale anch’io).

La scommessa del laboratorio Storia di un Corpo, invece, è non solo di poter praticare la consapevolezza, e farlo in uno spazio condiviso con un gruppo di potenziali sconosciutɜ, ma di poterlo fare attraverso il corpo per mettere al centro del testo il corpo stesso.

In Dysphoria Mundi Paul B. Preciado racconta un altro modo di vivere il suo corpo, di pensarlo. Quella che chiama somateca è un po’ carne, un po’ sensi, un po’ vulnerabilità, un po’ anche agency. L’unico problema del testo di Preciado è che, come filosofo, non ha la stessa capacità di superficialità che ha Natalie Golderg, e che dovremmo avere anche noi quando decidiamo di rimanere nel presente qui-e-ora (o perlomeno in un qui-e-ora, fosse anche uno della memoria).

Comunque, proseguendo con le tappe del laboratorio e praticando sempre di più questa strana commistione di scrittura e meditazione, mi rendo conto che anche pensare alla Storia di un Corpo come l’ha scritta Pennac non è proprio esatto (peraltro, per sua stessa ammissione, il titolo soffre di una cattiva traduzione italiana, sarebbe qualcosa di più simile a Diario di un corpo…). Quindi ho deciso per il momento di storpiare il titolo in Storie di un Corpo, tanto per dire che le storie che si vanno accumulando incontro dopo incontro nel mio quaderno sono decisamente eterogenee e parlano di pezzi di mondo (e di corpo) apparentemente estranei tra di loro.

Ecco, ne pubblico qualcuna qui. Ognuna è il frutto di una sessione di scrittura automatica, a malapena riviste e corrette. Per dire che non hanno un grande stile, ma va anche bene così.

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🗓️ 18/02/2025

#1 Cartolina al mio giudizio

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Potresti fare di meglio. No, non è una domanda. Potresti perché tutti possono. Potresti e dovresti. Perché hai alte aspettative su chi ti sta intorno, e ti delude così facilmente… Guardi come ti deludono e non intervieni, non prendi spazio per dire la tua, ecco come faresti tu, ecco come andrebbe fatto: no, è più semplice di così, quando nessuno sa che avevi la risposta, nessuno ti dà la possibilità di provare e sbagliare, quando nessuno ti legge è anche se ti legge chissà di cosa stai parlando… E poi, chi ha voglia di ascoltare veramente?

Pensavo a quello che hai detto l’ultima volta che ho fatto un errore — uno bello grosso. Hai detto sei tu, sei proprio tu che ti metti sempre in queste situazioni, non ti obbliga mica nessuno. Quel giorno lì avevo escluso qualcuno, l’ho cacciato, si chiama tradire le intenzioni. Ho fatto una cosa orribile. Sì. Beh e allora? L’ha fatta anche lui. Beh sì, adesso però siamo in due a soffrire delle cose orribili che a volte si fanno. Siamo in due, ognuno a casa propria, o sbaglio?

Quando ti parlo così ci resti un po’ male. Ti senti ferito e confuso. Non sai più quale sono io e quale sei tu.

Così vanno le cose, vanno così sempre più spesso. Più alte le tue aspettative, più profondo il mio fallimento. O non erano le mie aspettative?

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🗓️ 25/02/2025

#2 Fidarsi dei propri sensi

(Di nuovo…)

Lei non suda mai. Quasi mai. Ha una pelle che sembra una bambina. Sembra a volte di toccare un neonato o una foglia di salvia. Fa la skincare, mi dice, ma non è soltanto questo. Non voglio farlo sembrare una cosa essenziale, tipo è così per via della sua natura delicata o qualcosa del genere. È proprio che ha un corpo strano, un po’ misterioso, direi quasi falso se non lo conoscessi così bene. Ciò che è dentro e dentro, ciò che è fuori è fuori.

Poi a un certo punto non più. Stamattina, dopo che si era un po’ confuso il di fuori col di dentro, le ho toccato la faccia con la mano e ho sentito che era bagnata. Non particolarmente calda, ma di certo era sudata. Lì per lì ho pensato fosse colpa mia, che poi colpa si fa per dire, ho pensato cioè che a fare sesso al mattino non sai mai quello che ti capita. C’è la mattina in cui mi riaddormento a metà dell’opera, quella in cui mi devo alzare di corsa per fare la pipì. C’è la mattina in cui questo sesso dura un’eternità e alla fine ci diciamo: “d’accordo, ha smesso di essere divertente”. C’è anche la mattina, e sono la maggior parte, in cui suona la sveglia, e prima ancora di capire che di fianco a me c’è un corpo — prima ancora di capire che sono un corpo anch’io — c’è già lì l’immagine definita ma ancora imprecisata di una lista di cose da fare, un elenco da cui spuntare tutto nel corso della giornata, che mi chiama fuori verso la veglia con la voce petulante del coniglio bianco: Alice siamo in ritardo! Ecco, a essere onestɜ va quasi sempre così.

Mentre invece stamattina chi se ne frega, non c’è neanche la sveglia. C’è lei col suo corpo bizzarro (bizzarro davvero!), è ancora più bizzarra la sua fronte è sudata. Sarà poi colpa mia? Chi lo sa. Che poi, come diceva mio nonno quando facevo un danno e dicevo che non era colpa mia, non c’è bisogno di avere la colpa per essere responsabili. Non lo diceva così, perché è un po’ orso, comunque questa è la lezione. Sei responsabile di una febbre, di un influenza o di un covid, anche di una frattura o di un cancro. Ma che colpa ne hai?

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🗓️ 11/03/25

#4 Olfatto

L’odore dell’uvetta mi ricorda quello del pane di zucca che i miei nonni mi compravano alla festa della zucca. La sensazione di una cosa felice, innanzitutto perché è una festa, ma anche perché è cibo, che al pomeriggio mi fa sempre felice punto ma non è solo bello, è anche un po’ che mi hanno costretto ad andarci, e il pane alla zucca non mi piace veramente perché le uvette hanno un sapore disgustoso e vorrei scavare nella mollica gialla e soffice con il dito fino a toglierle una per una come faccio con il panettone.

Lo facciamo ogni anno di venire, di comprare il pane di zucca, premio di consolazione, ma nessuno sa se mi va davvero oppure semplicemente è una cosa che i miei nonni pensano di dover fare, cioè pensano che va fatto. Peraltro, ora che ci penso, non credo di aver mai più mangiato del pane di zucca dopo quella volta lì. Non saprei dire che gusto ha, se non che è piuttosto insoddisfacente perché la zucca non ha un vero sapore, ma soprattutto l’odore delle uvette.

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🗓️ 18/03/2025

#5 Vista

(Questo breve testo nasce da una pratica fatta di diverse fasi stratificate; ho cercato di renderlo quanto possibile fedele al processo con dei link che permettono di saltare da una parte all’altra.)

Vedo una faccia un po’ ambigua, un corpo un po’ ambiguo, forse gli altri queste ambiguità non le vedono ma è certo che ci sono. Allo stesso tempo vedo anche una persona molto comune, di quelle che ti passano accanto sul tram e un secondo dopo non sapresti più elencare neanche una caratteristica, eccetto forse il cappello viola all’uncinetto. C’è uno spazio in cui queste due impressioni, di apparire strano e di apparire comunissimo, si confondono tra di loro, un margine di incertezza.

Dentro il margine di incertezza, vedo una cosa che solo io e poch3 altr3 sappiamo vedere, un corpo in movimento, impressioni che sfarfallano, non coerenti, che non si fissano mai. Vedo una persona né maschio né femmina, dettagli che si contraddicono, li vedo e spero sempre che li vedano tutti, anche chi ti incrocia un attimo sul tram, spero che pensi: quella persona è un po’ strana, non è un uomo credibile, ma certo non è neanche una donna. Forse si può vedere qualcosa d’altro, ammesso di saperlo fare…

Vedo un passato e un futuro che si intrecciano, una figura instabile, un corpo che si muove nel tempo, e neanche sempre nella stessa direzione. Oggi ho due capelli bianchi, domani forse no; domani non avrò la barba, forse neanche le tette; ieri ero una bambina, oggi forse ancora un po’ (ma ogni volta che la racconto i verbi sono al passato).

***

-> A un certo punto ho deciso che non ne valeva la pena di fare la patente. Ho capito che è una cosa in cui non credo, non solo le automobili, ma tutto quel modello che ti spinge a pensare che siano una cosa importante e che la vita abbia la forma di un casello o di un giro intorno alle strade del centro sperando di trovare un posteggio. Non so quando è stato, forse quando siamo rimasti tutti chiusi in casa e ci è sembrato che l’unica cosa importante fosse non essere soli. Ecco, quella è una cosa in cui credo.

-> Mia nonna mi ha insegnato a fare l’uncinetto tanto tempo fa (mia nonna quella a cui non ho pensato per anni, e adesso finisco sempre a scrivere di lei). Mi ha fatto una borsa a tracolla di lana multicolore; avrei dovuto farla io, ma ne avrò fatte sì e no cinque righe. Stavo nel suo salotto poco illuminato, col gomitolo e il lavoro, e mi annoiavo a morte. Poi a un certo punto, qualche anno fa, mi è venuto in mente che le cose piccole di solito le preferisco a quelle grandi. Nonostante questo, ci ho impiegato un anno intero a fare il cappello viola.

-> Ho sempre pensato di essere la persona giusta per scrivere questa storia (questa qui, intendo, la mia). Vivere per raccontarla, come ha detto un grande scrittore. Qualcosa è cambiato quando ero uno studente: chissà perché mi ero convintə che l’unica storia davvero non interessante fosse la mia.

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🗓️ 25/03/2025

#6 Tatto

Alcuni punti che mi sembrano degni di nota:

  • ho paura di toccare le cose calde, per questo cucino malvolentieri
  • qualche volta l’angoscia è una sensazione tattile, di qualcosa di spesso e irregolare che mi posso rigirare tra i polpastrelli del pollice e dell’indice
  • è strano avere i peli sul corpo, senti le cose prima di toccarle davvero con la pelle
  • suppongo che la temperatura sia una forma di sensazione tattile
  • la mia cosa preferita da toccare è Ema

***

L. non aveva paura di toccare le persone, tutte quante. In modo speciale toccava i suoi amici; non parlava mai di affetto però abbracciava tutti. Mi ricordo di una volta, aveva diciotto anni, in cui l’avevo scorta abbracciare il barista del locale dove andavamo sempre a pranzo prima di andare a danza. Erano molto in confidenza? Io non credo. Peraltro a L. gli uomini non sono mai piaciuti. Che lui lo sapesse? Chi può dirlo.

Lo faceva anche con me, già da quando eravamo diventate amiche, però mi conosceva, sapeva che io non sono così. Vorrei dire: non si aspettava nulla, ma non è vero. Se l’aspettava eccome! Si aspettava che sarebbe stata lei a cambiarmi, a farmi crescere, diventare grande, imparare a interagire come i grandi. (Che poi, se ci penso adesso, mi sembrano così infantili gli abbracci che dava a tutti quanti.)

E io, cercavo quel tipo di contatto? Forse sì. Il giorno in cui ci siamo baciate me lo ricordo ancora, e mi ricordo soprattutto la notte in cui eravamo state sdraiate fianco a fianco sulle piastrelle fredde del terrazzino di casa sua. Come un mezzo abbraccio, forse una pressione involontaria del corpo contro il corpo perché il terrazzino era stretto, ma la verità è che a me faceva piacere. In fondo è quello che diceva lei. Voleva cambiarmi, e alla fine ci era riuscita. Ora lo sappiamo entrambi, lo sanno quasi tutti.

***

Una notte, è il compleanno della sua migliore amica Francesca, siamo nel parco dietro la piscina comunale. L. mio malgrado è venuta a sapere qualcosa di me, e cioè che gli uomini non mi piacciono poi tanto. Questo è il suo turno di raccontarsi, di dirmi quelle parti che, nonostante fossimo amiche da tre anni, fino ad allora aveva preferito non dirmi, forse perché sono troppo giovane, o forse imprevedibile.

È seduta accanto a me su un altalena del parco, guardiamo ognuna davanti a sé, non ci scambiamo neanche un’occhiata. In un altro momento e in un altro posto farebbe uno dei suoi gesti come mettermi un braccio intorno alle spalle, toccarmi i capelli (che portavo ancora a treccia), o pizzicarmi piano. Ma in quel momento non lo fa, è impossibile perché le altalene sono separate da almeno un metro e mezzo d’aria fresca.

È così che mi tocca, metaforicamente diciamo, proprio così, e forse era l’unico modo possibile. Così è partita, per arrivare dove è arrivata.

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