Una storia di Non siamo Bookblogger

Questo è il post numero 0 pubblicato sulla prima versione del mio digital garden. Ho deciso di recuperarlo, per la memoria storica, ma anche perché lo trovo abbastanza divertente.

Non pensare all’elefante: storia di un fallimento grosso così

Ecco come sono arrivatx qui.

Quella che vorrei raccontarti è la storia di un sito che non è questo. Un progetto ha occupato tra alti e bassi due anni della mia vita. La racconto proprio adesso perché, da un paio di mesi, il progetto è finalmente giunto al termine. È arrivato, se mi consenti un briciolo di dark humor, alla sua morte naturale. E allora, adesso che mi sono ripreso dal lutto e dai dubbi, posso tirare le fila di questa esperienza e di quello che credo di aver imparato. Ti racconto cosa è successo.

Per me è Ganesha

La questione dell’elefante l’ha aperta per primo un tale George Lakoff, professore di linguistica a Berkeley. Leggenda vuole che in un anno indefinito Lakoff iniziò uno dei suoi corsi dicendo agli studenti la famosa frase: «Qualunque cosa succeda, non pensate all’elefante». E così, nel giro di un semestre, riuscì quasi a scatenare un’ossessione collettiva per il povero elefante, appunto. Tutta la leggenda suona un po’ come una panzana, comunque sta di fatto che nel 2004 il professor Lakoff ha pubblicato un libro dal titolo: Don’t Think of an Elephant: Know Your Values and Frame the Debate, e quindi la famosa frase – del tutto fuori contesto – perlomeno è sua.

Ma non occorre credere a tutta la storia per finire a farsi qualche domanda sul senso dell’elefante. Cioè come funziona? Possiamo fare l’esperimento? Leggi: «Non pensare all’elefante» – e chiediti: a cosa sto pensando?

Ecco. Per me è Ganesha, per te probabilmente Dumbo, o quello che hai visto allo zoo quando eri alle elementari. Il concetto non cambia.

Eravamo bookblogger

Voglio dire, un blog che si chiama “Non siamo bookblogger” può essere solo un covo di bookblogger in autonegazione, e se non sei d’accordo con me dobbiamo rifare la cosa dell’elefante. Anche perché un blog del genere esiste (o meglio, esisteva) e dietro c’ero io con una manciata di altri irregolari lettori forti. È nato nel 2018 sotto il segno del “perché no” – pessimo segno – con l’idea di ospitare qualcuna delle tonnellate di recensioni che, come tutti i lettori appassionati, avevamo finito per scarabocchiare nei nostri quaderni di Tiger. La mia ambizione non ha mai raggiunto quella di Lakoff, ma di certo c’è stato un momento in cui il blog doveva sembrare una perfetta valvola di sfogo dove riversare la mia ossessione per la parola scritta. E così è stato.

Secondo la mia modesta opinione, Non siamo bookblogger è uno di quei progetti che sono più interessanti da morti che da vivi. E non solo in termini di dispendio di tempo all’interno dell’economia della mia vita (ci sono stati lunghi periodi in cui Non siamo bookblogger sostanzialmente ero io: ero designer, copywriter, direttore editoriale, digital strategist, social media manager, monarca e giullare). Ma al di là del bieco bisogno di prendersi una vacanza, c’era anche qualcosa di più. Con un briciolo di onestà intellettuale, è abbastanza semplice capire che, pur con le migliori idee creative, un progetto nato con premesse totalmente sbagliate non può funzionare.

Ti prego torniamo all’elefante

Non lo direi a voce alta, ma credo che in fondo una buona metà del successo di Non siamo bookblogger sia stato dovuto al nome. Mi piace dire in giro che Non siamo bookblogger è nato come gesto di disubbidienza civile in un periodo in cui tutti, proprio tutti, volevano fare i bookblogger. Ovviamente è una panzana come quella di Lakoff. Il nome è nato all’interno di un ragionamento, che non chiamerei certo strategia, ma che pure aveva qualcosa di un po’ provocatorio.

Avere un’idea del popolo dei social media, e in particolare della mia cerchia, è quello che, un pomeriggio di chissà quando (probabilmente ero sotto la doccia) mi ha fatto dire: vediamo quanti sono i ciuchi che per cercare un “bookblogger” sui social digitano letteralmente “bookblogger”. Così è andata. La vogliamo chiamare una scommessa? E sia. Una scommessa fortunata. E lo faccio sembrare come se fosse stato tutto un caso, mentre invece ero piuttosto convinto che avrebbe funzionato. Perché la verità è che non ce la facciamo proprio a concentrarci sul significato, ad andare oltre il suono delle parole, ed è per questo che ci facciamo abbindolare ancora da certe pubblicità agghiaccianti. Resterà sempre una parte di noi che, se le dico “non sono un bookblogger” si aspetterà di trovare un canale Instagam pieno di libri e tazze da tè. Penso che non riusciamo ancora a figurarci fino in fondo le conseguenze politiche dell’elefante.

Ma prima di andare avanti con la storia, c’è un altro aspetto divertente

Lo fa anche Google

Eh sì. Questa dell’elefante è una delle poche cose che gli esseri umani hanno in comune con i motori di ricerca. Quasi certamente è un altro dei motivi per cui Non siamo bookblogger per un po’ ha funzionato. C’è questa cosa che usavamo fare, e cioè chiamare i nostri pezzi non-recensioni, ce lo scrivevamo proprio dentro, nel testo, nelle descrizioni meta eccetera eccetera. Non granché come biglietto da visita, ma c’è un trucco. Devi sapere che per il motore di ricerca il trattino/dash separa, pertanto scrivere “recensione di Gerra e Pace” e scrivere “non-recensione di Guerra e Pace” è sostanzialmente la stessa cosa. Tu lettore umano capisci (o perlomeno dovresti capire) che sono i due opposti, l’uno la negazione diretta dell’altro, bookblogger e non-boobklogger, che stanno nello stesso rapporto di uno e zero, acceso e spento, l’essere che è e non può non essere e il non essere che non è e non può essere. Ma tu macchina, questo non lo capisci (sì, macchina, so che a tuo modo stai leggendomi anche tu). Per te bookblogger e non-bookblogger sono dallo stesso lato del binario semantico, sono essenzialmente la stessa cosa.

E così ho continuato a produrre contenuti, e:

  1. Mi sono liberato delle responsabilità e della competizione, perché io non scrivevo recensioni, ma non-recensioni;
  2. Quel nome una volta che hai imparato a pronunciarlo scandendo la differenza tra book-blog e black-block, probabilmente ti resterà impresso (specie se sei a tua volta un bookblogger); e
  3. Mi posiziono in serp con tonnellate di articoli tipo: “recensione di tal dei tali” – quando in realtà volevo dire non-recensione ma ops! lo spider non ha capito bene.

Che tu ci creda o no, questi non-bookblogger radical-shit hanno preso tre piccioni con una fava. Ecco, penso che fosse questo il punto denso al centro di tutto. Questo piccolo trick quasi casuale, un hack linguistico, che è forse l’unico aspetto di Non siamo bookblogger che fosse di qualche interesse, ed è anche il suo lato più punk. Istruttivo direi.

La crisi dei secchioni

Ma arriviamo finalmente alla parte in cui comincia ad andare tutto a rotoli.

Un problema consistente era quello dell’ironia. Se su Instagram il popolo digitale si accontenta di libri e tazze e qualche gatto nei momenti bui, il suo compagno di server farm, Facebook, è di tutt’altra pasta. Come si fa a gestire una pagina Facebook (che già negli ultimi anni non se la passano benissimo) su un argomento così banale come i libri? La nostra risposta è sempre stata l’ironia, la nostra ironia, che a volte sfiora il sarcasmo, insomma l’ironia secchiona che ha qualcosa di inside joke, ma è anche ben radicata nella cultura pop. Ma il problema dell’ironia secchiona è che va studiata a fondo, e comunque ci sono troppo pochi secchioni sui social per poter fare ironia e aspettarsi di essere capiti, qualche si cade nel politicamente scorretto. E non è il peggio: dall’altro lato c’è lo spettro di una autoironia del tutto autoreferenziale, che poi sfocia irrimediabilmente nel trash quando, forse per disperazione, ti ritrovi a ridere dell’accostamento tra Borges e il Joker su un tavolo operatorio.

Per fortuna la nuova social media manager era una di classe. Peccato che è durata poco. Se a questo aggiungi problema di Camus, con cui ogni social media manager culturale deve fare i conti almeno una volta nella vita, e poi il fatto che a ogni festa comandata restavo io da solo a ballare l’Alligalli con tutti i social sul groppone e a produrre contenuti e naturalmente occorreva che leggessi libri nel frattempo… beh, è arrivato il momento in cui mi sono detto che la vita non è abbastanza lunga.

Ed eccoci qui, tu e io, seduti su una panca (anzi su una punk-a) nel mio giardino che potrebbe sembrare una follia al temine di un’esperienza così platealmente fallimentare. E invece siamo qui, abbiamo ancora l’entusiasmo e, per quanto mi riguarda, tonnellate di cose da imparare. Puoi startene zitto zitto a ridere sotto i baffi, oppure (se sei un essere umano) puoi lasciarmi un commento.

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