• Corpi che non contano & Materia vibrante

    Ci sono corpi che non contano. Lo dico pensando a Judith Butler, ma in modo improprio, perché non sto pensando ai corpi sessuati o sessualizzati. Penso proprio all’ultimo grado dell’oggettivazione e della deumanizzazione, che ha senso solo in un paradigma in cui tutto ciò che non è umano è considerato meno-che-umano.

    Fuori dall’umano ci sono corpi che non contano, che scompaiono, che non sono riconosciuti degni di essere presenti sulla scena dell’agire umano, sebbene lo siano costantemente. È come nella fotografia: metti a fuoco il ragno sul limone e tagli fuori la terra su cui cresce l’albero e le muffe che abitano sulla parete, anche se l’uno senza gli altri non ci può essere.

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  • Lo zero waste è per i ricchi?

    Stamattina sono andatx in un negozio sfuso. Ho comprato 500ml di aceto balsamico e un deodorante da 100ml in vetro a rendere. Ho speso 19 euro.

    Lo zero waste è una pratica politica che riguarda il nostro rapporto con il consumo, con la produzione, con le nostre necessità e quelle della collettività di cui facciamo parte e, in ultima istanza, con il capitalismo.

    Per questo penso che sia non solo accettabile, ma anche eticamente e politicamente coerente boicottare i negozi che speculano sulla moda del prodotto sfuso (e di solito anche biologico). Capisco che uscire dalla grande distribuzione comporta sempre dei costi superiori, e che parte di questi costi proviene da una considerazione maggiore della sostenibilità umana e non umana. Ma se questa maggiore attenzione si traduce in una totale insostenibilità economica, allora dovremmo accettare che la soluzione dei negozi zero waste è quella sbagliata, e che probabilmente non abbiamo una soluzione di mercato da opporvi.

    Detto altrimenti, bello lo zero waste, ma se può essere solo una scelta di consumo che alcun3 si possono permettere, allora non serve a niente.

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  • Riciclabile

    Aggettivo quasi del tutto privo di in significato proprio.

    È la parola magica che, apposta sul packaging, possibilmente in verde e preceduta da “100%”, rende giustificabile la produzione di qualcosa che poteva non essere prodotto. Il suo potere a lungo termine è di permetterci di non mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri modi di consumo in virtù del fatto che qualcun altro, di maggiore peso, se ne farà carico al posto nostro. (Per vederne un altro esempio qui una relazione).

    Ovviamente si tratta di un umile tentativo di far entrare l’ambiente nel discorso pubblico, sempre che ci riesca in tempi di relativa pace ecologica. Certo è bizzarro che proprio i soggetti economici, contro il loro interesse, sollecitino la società civile a interessarsi a un problema politico.

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  • Consumismo

    Sostantivo maschile che esiste solo nel capitalismo industriale. Ma l’aspetto più interessante è un altro.

    In un libro del 1984 intitolato Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Mary Douglas e Baron C. Isherwood osservano che pensare al consumo secondo una prospettiva economica non dice nulla sul perché le persone consumano o iper-consumano, o sul perché al contrario risparmiano. L’oggetto di consumo, sia esso durevole come un vestito o effimero come un viaggio, andrebbe guardato con una lente sociale. Come insegna l’interazionismo simbolico, infatti, il suo significato emerge da ciò che l’oggetto è in grado di comunicare di noi all3 altr3.

    Secondo questa prospettiva, una dimensione che lasciamo fuori quando ci occupiamo di consumismo è quella degli oggetti come mezzi di comunicazione. Il consumismo, come problema di giustizia sociale e ambientale non ha una soluzione tecnica né economica, non è una questione che tocca solo l’offerta o la domanda. Senza sminuire il problema e le responsabilità, potremmo forse imparare ad approcciarci in un modo non individualizzante e non colpevolizzante, a partire da questa domanda: quando consumiamo un oggetto, che cosa abbiamo bisogno di comunicare attraverso di esso?

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