Nel nostro immaginario quando parliamo di natura, di ecosistemi e di ecologia, il 95% delle volte stiamo implicitamente pensando al regno vegetale.
Mycena è un genere di funghi abbastanza comuni (come sempre accade per i funghi, ogni gruppo ha al suo interno specie dall’aspetto diversissimo). Anche se tendiamo a dimenticarcelo, in realtà i funghi non sono vegetali, ma sono un regno a sé stante, come animali, batteri, archea ecc. Se ti interessano le loro vicende e le loro incredibili capacità, ti consiglio di leggere L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi del micologo Merlin Sheldrake, e di sfogliare il sito della Fungi Foundation o il loro canale YouTube.
Mycene, miceli, foreste
In breve, quello che è fondamentale sapere è che i funghi non sono vegetali, innanzitutto perché non fanno la fotosintesi. Ciononostante producono delle strutture organiche che si sviluppano all’interno degli ambienti “naturali” e ne intessono la trama. Infatti quello che chiamiamo comunemente “fungo” è soltanto una escrescenza che ha lo scopo di diffondere le spore nell’ambiente in modi che variano a seconda della specie (letteralmente è un pene). Il corpo vero e proprio del fungo è il micelio, un reticolo di filamenti dette ife.
In un articolo del 2020 Thoen et. al. hanno sostenuto che anche nel caso della famiglia delle Mycena, il micelio svolge una funzione metabolica per le piante, come una sorta di infrastruttura che permette lo scambio di sostanze tra i funghi e i vegetali con cui vivono. L’interazione tra il micelio e le radici migliora notevolmente la vita dei vegetali, ed è un elemento importante negli ecosistemi che creano e da cui anche noi animali dipendiamo.
Un altro aspetto, forse il più sorprendente, è che attraverso i funghi passa anche quel modo peculiare che hanno i vegetali di “definirsi” e relazionarsi. Infatti le piante non vivono come individui separati, l’uno indipendente dall’altro, ma formano delle strutture più ampie, delle colonie o comunità, fatte di corpi che comunicano tra loro proprio attraverso il micelio. Al limite, non è neanche più possibile definire con certezza quali sono i confini di un corpo, di un singolo individuo vegetale all’interno di una foresta (proprio come, peraltro, i batteri nel nostro intestino appartengono a un altro regno ma siamo a tutti gli effetti “noi”). Questo aspetto ha un che di magico a occhi non esperti come i miei. Per approfondirlo tenendo insieme meraviglia e rigore, consiglio i libri divulgativi di Stefano Mancuso e l’incredibile romanzo premio Pulitzer Il sussurro del mondo di Richard Powers, oltre al già citato Merlin Sheldrake.
In breve, questi ecosistemi portano con sé un problema di definizione, un problema epistemico profondo che la nostra specie sceglie spesso di ignorare, almeno finché è possibile. Da un lato, mettere in dubbio e giocare apertamente con i confini di un individuo è qualcosa che le pratiche queer hanno fatto e ancora fanno. Dall’altra parte, un ecosistema è anche una metafora profondamente politica di come l’equilibrio sta nella trasformazione e di come tutto è incluso, non a partire dal suo ruolo sociale, ma dalla materialità del suo corpo.
E il Solarpunk?
Chiunque abbia avuto un problema di muffa in cantina, sa che i funghi non fanno la fotosintesi, pertanto non hanno bisogno della luce diretta del sole per vivere. Sembrano insomma contraddire lo spirito dell’olismo energetico solarpunk, o almeno non si prestano a esserne il simbolo.
Però a me piace l’idea di parlare di funghi e di Solarpunk. Mi sta a cuore quel gesto di dare dignità a tutte quelle strutture e funzioni, tutti quei viventi e sistemi, che sono invisibili, non vivono alla luce del sole, non sono facili da apprezzare e talvolta nemmeno da rappresentare col linguaggio e con i sensi.
Una fase banalissima del Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi.”
Ecco, i funghi sono esseri essenziali al Solarpunk. Una ragione diegetica è la seguente: quello che consideriamo il combustibile fossile storicamente più importante e che ha letteralmente acceso il capitalismo industriale, il carbone, si è formato in un periodo geologico in cui i funghi non erano in grado di metabolizzare e decomporre alcuni materiali organici. Oggi non è più così e, a eccezione dei rari ecosistemi delle torbiere (che comunque stanno sparendo per via del cambiamento climatico), non c’è un posto sulla Terra in cui si possa creare nuovo carbone.
Paradossalmente, la colpa della crisi energetica è in parte da addossare all’evoluzione dei funghi. Ma nel Solarpunk la crisi energetica non è altro che il pretesto per innescare un cambiamento più profondo, una rivoluzione dei rapporti con mondo, coi corpi umani e non umani, con le loro funzioni, la loro/nostra organizzazione eccetera.
Ecco perché ridurre il Solarpunk all’estetica di TikTok è un’errore innanzitutto politico. L’essenziale non sta (solo) alla luce del sole, non è fatto di infrastrutture coperte di prato, di enormi stanze Art Nouveau, di docili corsi d’acqua in spazi altamente urbanizzati ma apparentemente poco abitati. Ciò che vive nell’oscurità e non è bello, è ugualmente parte del cambiamento, e ugualmente si unisce alla lotta per non essere escluso dalla possibilità della vita. I funghi sono a un gradino piuttosto basso della gerarchia del vivente, e insieme a loro, nel solarpunk si lotta per cancellarla (come i piccioni di Donna Haraway).
Un’altra frase un po’ meno banale, che dice il cartografo al Piccolo Principe: “Noi scriviamo cose eterne“. Ed è quasi vero: le rappresentazioni del mondo che creiamo diventano realtà a sé stanti, vere e indipendenti. Quando tracciamo mappe e inventiamo nomi (cosa che secondo il Genesi facciamo fin dal nostro primo giorno sulla Terra), il prodotto del nostro fare è altro da noi, e vivrà quasi per sempre. Decostruire confini, categorie, gerarchie, schemi è una scelta; abbandonarli è una lotta; edificare immagini da mettere al loro posto è politico ed è il senso del Solarpunk.
Comunque è solo un blog
Mycena è per ricordarmi che in fin dei conti la vita è dappertutto, non solo nei luoghi in cui posso comprenderla e legittimarla, leggerla come utile, bella, armoniosa.
Questo non toglie che mi piacciono le cose carine e che uso la metafora vegetale a piene mani. Per esempio nel giardino digitale, che qui si chiama banalmente journal, ma ospita semi, germogli, piante, boschi e pollini, tutto un insieme di idee e di pagine che hanno (a volte) un loro ciclo di vita.
Tutto questo funziona in quell’intrico di collegamenti e relazioni che sono un po’ come le ife fungine, ma nella pratica sono testi, link, tassonomie ecc., e sono anche cavi che corrono sotto l’oceano, per non dimenticare che senza il materiale non si pensa un bel niente, o come diceva quel saggio: Per fare il tavolo vi vuole il legno.
Insomma, che siano i vegetali, che siano le mie idee, c’è sempre un fungo dietro al processo della vita.
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Comunque tutto il discorso nasce dal fatto che ho i capelli a forma di fungo. Allego evidenza: