📘 Racconti

Ogni riferimento

In queste brevi cronache c’è la politica e c’è il sesso; ci sono i corpi trans* e le impressioni collettive lasciate dal loro passaggio; ci sono esperienze che non possono essere descritte da una parola soltanto. Sono storie di movimento e di città, di ombelichi e di fiumi che decidono per sé. E sono tutte storie vere.

Con uno sforzo della memoria e del linguaggio, Ogni riferimento è una raccolta work-in-progress di brevi essay e note autoetnografiche.

Ogni riferimento
    • O: una storia ombelicale

      In realtà non è una O perfetta. È un po’ allungata, come uno zero.

      Si solleva e si abbassa dal centro della pancia, una posizione simmetrica tra la vita e il bacino, non all’ombra della gabbia toracica né troppo distante: a metà, cosicché la pelle resta nuda, regolare, tra quella peluria che abbraccia l’ombelico fino quasi e entrarci dentro e la soffice nuvola scura di temporale che sale su dal pube.

      È un grazioso anello che racchiude un buco neanche tanto profondo – profondo quel tanto che basta per catturare e intrappolare qualche pallino di cotone e di flanella che si stacca da una felpa attratto da un principio di gravità solo suo (ma tutto sommato comprensibile). Un buchetto che ha come unico scopo di alzarsi e abbassarsi adagio. Alzarsi e abbassarsi.

      E però, ad ascoltarlo, parla. Un’orma lasciata lì dopo il passaggio di qualcosa, la forma materiale di un evento, cioè naturalmente il fatto di essere venuti al mondo, e lo richiama e lo racconta e fa pensare a quel momento lontano e misterioso, e a tutto quello che di bello e di brutto ha portato con sé. E poi ancora racconta di un lungo lunghissimo periodo della nostra simbiosi, di un disperato bisogno parassita di restare legati, fragilissimi e dipendenti, a un altro essere umano nella sua buona e nella cattiva fede. E ancora può suggerire che cosa succede nei casi in cui il canale si interrompa, la connessione si perda prima del suo tempo, come un picciolo che marcisce e marcendo si assottiglia e si spezza abbandonando un frutto non ancora maturo. Certe persone portano addosso la cicatrice circolare di una separazione improvvisa, il taglio di un antico legame, prima che permeasse il corpo per cristallizzarsi in una certezza. Quel taglio, insieme al taglio di sé stessi, è l’unico che non guarisce mai.

      Osservando la O che si alza e si abbassa mi accorgo di una piega di pelle tesa sotto il forellino. Sdraiato a letto accanto a lei, avvolto dal profumo dei suoi capelli, mi lascio ipnotizzare da quel movimento dolce e dalla piega che da dove la guardo sembra una palpebra di Polifemo o una serranda abbassata per metà.

      Una volta magari il suo ombelico era proprio come un oblò. Se la conoscessi da più tempo lo saprei. Magari è stata lei, che ha stretto quel lembo di pelle tra il pollice e l’indice così a lungo e con un tale impegno da cambiare definitivamente la sua forma. È facile immaginarmelo: un gesto simile, ma più intenzionale, a quello che le ho visto fare tante volte d’estate, con la falange distrattamente infilata nella O, mentre lei legge a petto nudo completamente immersa in un libro di teorie queer, mentre io pesto sulla tastiera e quando la guardo perdo il ritmo.

      «Posso toccarlo anch’io?»

      Tira fuori la faccia da Preciado. «Cosa?»

      «L’ombelico. Posso?»

      Si guarda da fuori e si accorge del dito infilato nel forellino. Ci pensa e poi conclude che sì, è una bella sensazione, e allora mi lascia percorrere con l’indice il perimetro della O, e sfiorare l’anello prima in senso orario, poi antiorario, poi di nuovo orario; il mio polpastrello che corre deciso ma anche un po’ inquieto, come un atleta dei duecento metri piani che si allena per la maratona e a ogni passo reprime il desiderio di fare lo scatto.

      «Come fa a piacerti?», protesta, «Ha i nei…»

      La guardo come se avesse parlato in una lingua sconosciuta.

      «Quali nei scusa?» Avvicino la faccia alla sua pancia che profuma di un profumo indescrivibile ma ormai familiare. Sulla pelle chiara ci sono due nei. Uno più piccino, a destra poco sotto la O, seminascosto nella peluria. L’altro più grosso e scuro, sempre a destra ma più in alto. «Hai ragione,» non li avevo mai notati, «hai due nei…»

      «Appunto.»

      Le sfioro di nuovo l’ombelico, ma lei mi richiama. «Non guardarlo!»

      «Okay scusa!» Mi metto una mano sugli occhi, allungo l’altra come uno zombi e a tentoni arrivo a pizzicarle la pancia. Lei salta; apro gli occhi e con tutto il corpo si arrotola tu sé stessa e intorno alla mia mano. Allora le sfioro i peli delle ascelle e le punzecchio il collo e i capezzoli e le faccio il solletico da tutte le parti, e forse è un po’ puerile ma insomma finiamo a scopare. (In fondo, che ci si creda o no, accarezzare con le dita l’anello dell’ombelico non è poi così diverso da stimolare quello del culo).

      Fuori ha cominciato a piovere. Il tempo passa sul quadrante dell’orologio ma non passa per me. Sono assente dalla conta – non contate su di me! –, dove mi trovo le ore e i minuti non esistono. Al loro posto picchietta indefinita la pioggia fuori dalla finestra aperta della camera. L’aria è umidissima e anche la sua pelle. Profuma di deodorante.

      Quando torno a sincronizzarmi mi viene da ridere. «Ti sei sborrata nell’ombelico.»

      Sorride bellissima, fa la faccia del mai una gioia. «Vado a lavarmi», ma la sto trattenendo cingendo le gambe intorno alle sue.

      Intingo i polpastrelli nel suo sperma e lo stendo come vernice acrilica a coprire i due nei. Lei mi guarda stuccare, imbianchino provetto, senza dire niente.

      «Mi piacerebbe scrivere una racconto sul tuo ombelico.»

      «Con la sborra o senza?»

      «Non so. Anche con,» sbuffo piano. «Una storia d’amore…»

      Si divincola e va in bagno. «Ma chi scrive più le storie d’amore?» chiede da dietro la porta socchiusa. Torna pulita, ridacchia come a dire lascia perdere – la pancia di nuovo asciutta e i due nei al loro posto.

      Mi si sdraia accanto, con i capelli sciolti che rivestono tutto il cuscino. La pelle sudata che lentamente si raffredda e l’ombelico che va su e giù; poi su e poi giù; e poi su e poi giù; e poi su… aspetta, e poi giù, e il respiro rallenta nel rumore della pioggia.

      Davanti ai miei occhi quel centro: la O scoperta e biasimata, prima scandalosa per gli altri e poi pudica per sé; la O segreta che non ha mai chiesto di essere guardata, né tanto meno raccontata.

      Ma il fatto è che l’amore è un po’ scandaloso. Quasi mai arriva da dove vorremmo, e quasi mai in una forma che possiamo capire. Eppure abbiamo imbrattato milioni di fogli e siamo ancora qui a farlo, o sbaglio?

      Sotto il mio solo sguardo, l’anello della O si alza e si abbassa regolare, in silenzio.

      In realtà non è una O perfetta. È un po’ allungata, come uno zero.

      * * *

    • Mia nonna è un fiume

      Una notte ho sognato che mia nonna mi portava a vedere il fiume. È sempre stata una donna riservata, capace di parlare per ore senza farti neanche sospettare l’importanza di quel che stava dicendo per lei stessa. Mia nonna era famosa per i suoi aneddoti sulla Seconda guerra mondiale, che aveva vissuto da bambina in una Milano dal volto grigio e fragile come un biscotto. I ricordi sgorgavano da lei con l’odore di gallina in gabbia e il rumore di un treno sovraffollato dove forse qualcuno si sarebbe alzato per cedere il posto a una bimba o forse no.

      Quando nel 2015 mi trasferii a Milano, scoprii che non aveva il colore e la consistenza che mi aspettavo. Era una città piena di luci e messe in scena, un posto in cui era facile vivere, anche per un topolino di provincia come me, dove potevi trovare spazi amici e storie abbastanza brevi, intense e desiderabili da darti l’impressione di aver vissuto una via piena, tutto sommato. Non riverberava nessun anelito di giustizia, né un ricordo dell’odore del sudore e della forza degli antifascisti in Piazzale Loreto; la stessa parola giustizia era fra i pochi severi tabù. Avevo trovato opportunità, trasformazione, Expo – mentre le parole di mia nonna erano pazienza e carità, ma soprattutto pazienza direi. Un gusto per la stasi di cui non era rimasta traccia.

      Erano passati settant’anni dal tempo dei suoi racconti. Galline in gabbia e treni sovraffollati, se mai c’erano stati, erano morte le une e dismessi gli altri; così come la nebbia, il senso di nazione, il brulichio industriale, i telefoni a disco, i dopolavoro, la lettera di arruolamento, il pane grigio al gusto di carestia, il clarinettista di corso Como che faceva le prove con la finestra aperta.

      Quel colore e quella consistenza che mi ero immaginato non solo se n’erano andati; forse ormai parlavano solo della misteriosa interiorità di mia nonna e della sua pratica di ripetere e ripetere storie di storia, sempre uguali a se stesse ma sempre un po’ diverse. Ovviamente fanno fede comunque, specie agli occhi di uno che non ha scrupoli a ribaltare le cose il di dentro di fuori per il gusto di lasciarle lì come la biancheria stesa e magari tornare qualche volta a scriverci un racconto sopra. Ma neanche lo scorrere del tempo usurava queste storie; qualcosa che cambia non esiste meno solo perché è destinata a cambiare.

      Una delle sorgenti del fiume Livenza si chiama Gorgazzo, che vuol dire letteralmente il maledetto gorgo, come nel racconto di Beppe Fenoglio. È costituito da un unico tunnel scavato nella roccia, di cui non si conosce la profondità né la forma esatta, e da lì esce il fiume. Dal punto di vista naturalistico è un posto molto interessante, sebbene sia quasi impossibile studiarlo, dopo che quindici anni di immersioni ci hanno lasciato con nove morti e poche informazioni. Comunque per me è sempre stato il posto dove si andava il venerdì pomeriggio dopo scuola, con mia nonna.

      Arrivavamo salendo a piedi dalla strada pedemontana asfaltata. Passavamo davanti a quello che allora era un negozio di miele artigianale, e fuori aveva affisso un cartonato altezza umana di un’ape regina un po’ kitsch. Si entrava poi nel parco, un sentiero di terra battuta tra aiuole ben curate da un lato, e dall’altro l’argine del fiume. Ci si avvicinava camminando in direzione contraria al suo corso, come per andare incontro alla sorgente, che era sepolta a meno millecinquecento metri sotto un lago, ma poiché io non lo sapevo, ho sempre pensato che quel lago fosse esso stesso la sorgente e che in generale le sorgenti avessero la forma di un laghetto profondo che esce fuori da sotto una montagna.

      Raramente veniva anche mio nonno; il più delle volte quelle gite avevano tanto più valore proprio perché lui non c’era. Portavamo in pane secco ai cigni e ai grossi pesci che abitavano il lago, e ci fermavamo a guardare in su verso la montagna coperta di vegetazione, forse anche per un’ora, non saprei dire. La cosa affascinante non erano tanto gli animali e le creature viventi, ma il fiume in sé.

      In fondo, mi chiedo adesso ripensandoci, cos’è un fiume? È l’acqua che scorre o è il letto su cui scorre, è una linea celeste sulla mappa oppure le alghe verdastre che crescono lì e non altrove e gli insetti che se ne nutrono? O forse è tutto questo, o niente di tutto ciò? Da bambino era perlopiù l’acqua, perciò mi sembra giusto dare credito anche a quella sensazione, che il fiume sia qualcosa che è sempre in viaggio, che tira dritto e non si ferma per nessuno.

      Stavamo a guardare il neonato fiume per un tempo che sembrava adeguato, e poi mia nonna decideva che era il momento di andare via e si andava via. Tornavamo giù lungo la strada di terra battuta, questa volta accompagnate dallo scorrere dell’acqua limpida e dalla direzione delle alghe verdi filamentose che ci indicavano la strada fino a valle. È di lì che si va, è così che si fa a vivere.

      * * *

    • Una bicicletta di nome Oscar

      Il cortile sembra di un condominio del Bronx, con i terrazzi degli appartamenti che affacciamo all’interno su uno spiazzo enorme dove l’erba non cresce neanche. Ci sono due poliziotti in un terrazzo al pianterreno che mi guardano male quando mi avvicino. Poi finalmente scende N. e mi indica la bicicletta. È così messa male che dalla foto non l’avevo neanche riconosciuta. Ha il telaio giallo ocra, le gomme di due colori diversi e dei pezzi di nastro adesivo fucsia intorno al manubrio e alla sella.

      «Ha il freno davanti staccato,» mi dice, «ma c’è un biciclettaio qui in corso Palermo che te la ripara con poco.»

      Me la fa provare. Certo, non frena, ma per il resto cammina benone. D’accordo, con sessanta euro mi porto a casa la bici e pure la catena.

      Mentre la spingo sul marciapiede penso che era esattamente quello che cercavo da settimane e non riuscivo a trovare: una bicicletta solida, veloce e soprattutto economica. Colpa mia, che non mi sono mai convinto a svegliarmi presto il sabato per andare al Balôn prima che tutte le bici decenti se le siano prese.

      Mentre torno la provo di nuovo, con solo il freno posteriore. Penso a quanto sono fortunato, e che Granovetter aveva proprio ragione sulla forza dei legami deboli (perché, anche se frequentiamo gli stessi posti, N. l’avrò visto in totale quattro volte).

      Solo alla fine corso Giulio butto un occhio, e mi accorgo che la forcella che collega il telaio alla ruota anteriore è spezzata.

      «Ma è riparabile?»

      Il giorno dopo mi sono fermato da Beppe della ciclofficina Cycles, sul Lungo Dora. È quasi il tramonto, lui ha molto lavoro e comunque in generale è un tipo un po’ burbero. Sulla bicicletta ci sono andato in giro tutta la mattina, sfidando la sorte e ignorando rumori ambigui e strani saltelli, e nel frattempo finisce che mi ci sono affezionato.

      «Me l’hanno lasciata in questo stato, ma a buttarla mi dispiace…»

      Beppe è un tipo giovane, coi ricci afro e sempre i guanti da lavoro. La guarda un po’ da vicino. «È una bella bicicletta, non va buttata,» mi dice. «Però ci va tanto lavoro…»

      «Tipo?»

      «Una sessantina di euro… a trovare la forcella e tutto, almeno quattro giorni.»

      «E va be’» – che poi a questo punto sarei disposto a mettercene su anche centocinquanta di euro ma ovviamente non glielo dico. Non vuole un acconto, non vuole niente, se non mettere in chiaro che io di biciclette non ne capisco nulla (che è assolutamente vero, tanto più che l’ho comprata).

      Me ne vado via a piedi per il lungo Dora, sollevato come se volassi, e sono impaziente di girare col nastro adesivo fucsia da tutte le parti. Tutto si ripara alla fine. Un po’ come quei giapponesi che mettono l’oro nel vasellame rotto. Non è tanto il risultato, quanto l’investimento.

      In fondo è un po’ come Wiz, che è il mio computer. Oggi ci lavoro tutti i giorni, è adatto a me, ai miei gesti e alle mie scorciatoie mentali. Ma quando è arrivato, nell’estate nel 2023, era solo una bizzarra macchina ricondizionata, con una RAM esagerata e uno schermo touchscreen imperfetto e del tutto superfluo. Per di più, la batteria era stata montata fuori posto, e sono occorsi un po’ di tentativi per riuscire se non altro ad accenderlo. Poi, sul più bello che avevo installato il sistema operativo, avevo scoperto di un raro problema di kernel che alcune macchine potevano incontrare con la mia distro di Linux.

      «Ma è riparabile?» mi chiedevo, perché non avevo nessun altro a cui chiederlo. Per una settimana avevo pensato che fosse insalvabile. Di nuovo colpa mia e della mia poca pazienza. Ema, che con internet è zen, era riuscitə a trovare su un forum uno che aveva avuto lo stesso problema e che si era inventato lì per lì una soluzione. Questo mi aveva salvato il computer e mi aveva definitivamente convinto della tesi di Ivan Illich sul potere della comunità di fare a meno del giudizio degli esperti. Insomma, dopo momenti di panico ce l’eravamo cavata bene.

      Solo adesso mi torna in mente che, una volta riparato, uno dei nomi che avevo pensato di dare al computer era Oscar.

      * * *

    • Ginecologia

      La verità è che lo speculum riguarda la politica, non la medicina. Tanto più che, per sua stessa ammissione, la medicina non vuole aver niente a che fare con la politica.

      Senza averne mai visto uno, lo speculum mi evoca l’idea di assemblee partecipate da giovani donne di ogni estrazione, alcune con ampie gonnellone ricamate, altre alla moda delle studentesse universitarie, che leggono Audrey Lorde e si incontrano il giovedì sera negli spazi comunitari tappezzati di locandine con fiori e altri clitoridi litografati. Mi evoca un senso di madri e zie che, insieme tra loro e con lo speculum si ritrovavano a produrre saperi e a concepire noi femministe del domani.

      Proprio per questo suo ruolo di padre politico, mai mi sarei aspettato di avere poi a che fare con uno speculum vero e proprio, in carne ed ossa per così dire, e nella fattispecie uno speculum giallo. Come ho detto, io non l’ho visto, ma la dottoressa era molto convinta che dovesse trattarsi proprio di quello giallo, mentre dava istruzioni a un’infermiera di mezz’età molto perplessa.

      Nella sala d’aspetto ci sono solo coppie: la maggior parte sono formate da un uomo e una donna di età simile e simile stile; altre sono chiaramente madre e figlia. Le donne sotto i cinquanta sono in larga maggioranza incinte. Tutte hanno con sé una spessa cartella clinica color verdino col logo della Regione Piemonte e un’orribile disegnetto che vorrebbe essere la curva stilizzata di un pancione. Alcune ci guardano, ma sono più che altro i papà a mandarci occhiate curiose. È per via del passing, sembriamo due uomini in una sala d’attesa di ginecologia.

      Poi mi chiamano in un’altra sala, l’ultima prima dell’ambulatorio. Qui sono tutte donne (per quel che ne posso sapere), che già mi rende un po’ strano. Ma poi anche l’infermiera, che mi costringe a dichiarare a voce alta il nome e cognome scritti sul mio tesserino sanitario. Poi lo richiede di nuovo, prima di capire che no, non c’è l’errore, sono la stessa persona per cui è prenotato, la stessa che deve fare la visita ginecologica, e lo so che ho la barba, mi pare evidente, ma questo non esclude che possa avere anche il cancro alle ovaie o che ne so.

      L’ambulatorio è spoglio e quasi macabro, non ci sono poster litografati né femministe nere. La dottoressa mi fa delle domande

      Leggo tra le righe: “Come mai è qui?”. Perché ho l’utero direi.

      Ma forse me lo sto immaginando io, allora le dico che devo fare il pap test, e che mi fanno male i rapporti penetrativi. Non le dico che non mi importa granché, perché è da quando sono entrato in ambulatorio che penso magari questa volta scopro come mai, e adesso sono curioso.

      Impassibile, lei mi risponde. «È normale, con il testosterone, provare un po’ di secchezza vaginale. Le scrivo il nome di alcuni lubrificanti che può provare.»

      Solo che io ho detto dolore, non secchezza, e dopo ventisette anni di vagina conosco la differenza. Sto per dirle che no, non è normale, ma poi penso dai stai zitto questa volta, un po’ perché la dottoressa mi sembra gentile, e un po’ perché ho paura che mi renderebbe la visita il più dolorosa possibile per vendicarsi e ricordarmi chi ha bisogno di chi.

      Intanto l’infermiera non ha smesso un attimo di fissarmi. Mi spoglio e mi fissa, mi siedo e mi fissa. Si volta solo un momento quando la dottoressa le chiede di andare a prendere lo speculum giallo, quello piccolo. Poi torna e mi fissa ancora.

      Me ne sto lì con il cazzo per aria e l’infermiera cinquantenne che mi fissa, e dentro di me penso, d’accordo che è il più grosso che sia mai entrato in questo ambulatorio, ma non mi sembra cortese. La parte peggiore comunque è farsi grattare via un pezzo di parete dell’utero, cosa che sarà anche necessaria, ma dopo più di trecento anni di scienza non capisco com’è che non abbiamo trovato un altro modo. Ci sono delle scoperte che ha senso fare, e altre che non ne vale la pena. In fondo, a pensarci, solo metà della popolazione ha un utero, e di questa importa solo quella di età compresa tra i venti e i trentacinque o quarant’anni, e comunque anche di queste non si può dire veramente che abbiano un utero, più che altro lo portano in giro come servizio per la collettività. Che poi non è un problema di per sé, certo che procreare è anche un servizio alla collettività, come consegnare la posta (non a caso si dice to deliver). Solo che è proprio un po’ come fare la postina: quando lo fai è importante socialmente, ma non è che lo devono fare tutte. Se non ti va farai qualcos’altro.

      Prendi me: ho un utero e ho ventotto anni, perfettamente in tempo. Solo che non sono portato. E poi penso che se diventassi incinto mi chiamerebbero da Canale Cinque.

      «Il suo utero è minuscolo,» dice la dottoressa, che una volta finito di grattare e riposto lo speculum giallo, è passata all’ecografia. Poi si sposta. «Anche le ovaie.»

      Non so cosa dire. Grazie? Mi spiace? Guardi che se dice così le offende? Io sono ancora senza mutande e l’infermiera ancora che mi fissa. Chissà, forse in un’altra vita il mio utero avrebbe avuto una possibilità di essere importante anche lui, almeno una volta, pure senza andare a Canale Cinque.

      Una volta finito e rivestito la dottoressa gentile mi dà la cartella. Per il referto del pap test deve tornare, mi dice, venga con me. Usciamo dall’ambulatorio e fuori c’è Ema che mi aspetta. Andiamo in un altro reparto, in una palazzina diversa dell’ospedale. La dottoressa entra in una stanza e ci chiede di aspettare fuori. Poi mi fa entrare e trovo un’altra infermiera, più vecchia della prima.

      «Per ritirare il referto deve venire qui tra un mese,» dice, «chieda pure di me, tanto mi ricordo di lei.»

      Grazie?

      «Buona giornata,» e ce ne andiamo.

      Mi spiace perché l’unica cosa utile, a livello politico intendo, era vedere dal vivo uno speculum, e invece niente. Me ne torno a casa con un paio di marche di lubrificante e la consapevolezza di avere un utero minuscolo. Fuori dall’ospedale è una bella giornata.

      Ema pensa: ma che cazzo di umore hai oggi? ma non osa chiedermelo. Poi ricominciamo a parlare di politica.

      * * *

    • Occupare tutto

      Venerdì 7 marzo 2024

      In città ci guardano, schive e mute, mentre ci sediamo con ostinazione nel centro delle piazze che sono diventate rondò a viabilità accelerata. Mentre volgiamo gli occhi dall’altra parte, e anche le orecchie, come gatte, per non ascoltare i discorsi sconci della vecchia classe operaia in esubero, che sta coi culi in esubero sulle panchine incise, a condividere persistenti accenti del sud.

      L’aria è il traffico, gli autobus sono troppo grossi per questa piccola rotonda; alzi gli occhi e ti accorgi che ti guardano tutt3, di nascosto, dai dehor di plexiglas della condivisione a pagamento che restringono ulteriormente la piazza su due lati; vecchie signore e zarri dabbene della periferia, si incontra lo status di popolazioni incomprensibili.

      Una donna si siede vicino, i ragazzini si danno a vicenda del morto di figa, Porta Palazzo, accento napoletano, un giovane al telefono in una lingua che non so. Le cabine del telefono qui ci sono, non è che manchino, però hanno il cartello che dice “questa postazione sarà dimessa”, che vuol dire sbrigati a chiamare chiunque sia che ti sta a cuore. Cambia il paesaggio sotto lo sguardo di nessuno.

      Qualche giorno fa ho avuto una visione. Avevano dismesso le onde elettromagnetiche – quelle della comunicazione intendo. Il filo fisico era di nuovo nelle nostre vite, e senza non potevamo più fare nulla. Pensa che fregatura sarebbe, per chi si è girato tutta la città, forse tutto lo stato, per mettere i cartelli che dicono “questa postazione sarà dimessa”. Vecchio sogno punk tra le parole della gente, perché dopo dieci minuti che sono qui la piazza è piena di persone sedute con me.

      Se stessi qui un’ora riempiremmo le panche, il gradino del marciapiede, straborderemmo in strada. Coi nostri corpi bloccheremmo il traffico; in un giorno ci prenderemmo la città, occuperemmo tutto.

      Anche domani i nostri corpi saranno marea, invaderanno tutti insieme la strade bagnate, e non saranno qui per dieci minuti e nemmeno per un’ora. Verranno per restare, fino a quando non avremo imparato a riconoscerci a vicenda, a difenderci a vicenda, e ci saluteremo al ciglio dei viali che saranno solo nostri. Queste formazioni non hanno nome. Non si chiamano classe, né famiglia, non sono neanche società. Comunità è la parola che uso in mancanza d’altro. Serve a dire cosa succede quando ti siedi per un’ora in una piazza sconosciuta di periferia, e forse a qualcuno inizi a ispirare fiducia. Le donne, gli operai, un ragazzo che scrive. Mi ero seduta con l’intento di leggere Foucault, ma ho capito che leggere in pubblico non sta bene. Gli zarri, gli autobus, le cabine telefoniche. Il paesaggio che cambia, la piazza è un caleidoscopio.

      Mi ero seduta per autolegittimarmi nell’attesa, perché sedersi nella piazza è un gesto politico. Oggi siamo in due, domani saremo marea, ma voglio promettere, sento che posso giurarlo, che un giorno di questi i nostri corpi saranno milioni, saranno liberi di sedersi e leggere Foucault. Un giorno di questi, giuro, occuperemo tutto.

      * * *